Regia di Daniele Sartori vedi scheda film
In “Contatto forzato” Daniele Sartori evidenzia la sua non comune versatilità, che lo vede capace di affrontare con uguale piglio generi estremamente differenti fra di loro, e soprattutto una sempre maggiore efficacia, frutto anche di una piena padronanza di sé e dei propri mezzi espressivi. Il corto, lungo 20’, racconta di due soldati fascisti,imprigionati dai partigiani nei giorni precedenti la liberazione, nell’aprile 1945: il tenente Antonio Graziani (Alberto Onofrietti), comandante di una brigata, e il soldato altoatesino Detlef Hagermann (Diego Facciotti). I due vengono portati in una stalla, bendati e legati saldamente assieme da corde strette e opprimenti; obbligati a quella vicinanza coatta, Antonio e Detlef vivono con ansia e dolore fisico quel momento tremendo che stanno vivendo, chiedendosi se mai esisterà per loro un futuro, non foss’altro per salutare i propri cari. In tutto ciò, si danno reciprocamente la parola d’onore che, se liberi, nessuno saprà mai di quella mortificante situazione sopportata. Ma, alcuni giorni dopo, nel centro di riconoscimento dei prigionieri di guerra, Detlef dovrà decidere se rispettare quella parola data per evitare che Antonio sia fucilato. Contatto forzato non èun film di guerra; quest’ultima rimane anzi volutamente ai margini del discorso, relegata tutt’al più nel livore, nella rabbia e nel cinismo di alcuni personaggi, in questo caso partigiani (ma il corto non assume connotazioni ideologiche, anzi si capisce bene come al momento opportuno vincitori e vinti, con ruoli rovesciati, si comporterebbero in maniera analoga, la guerra purtroppo funziona così...). Sartori, autore anche del soggetto e della sceneggiatura, preferisce invece mettere a fuoco un anfratto nascosto della guerra, un minuscolo ma significativo interstizio della storia, uno dei tanti poi inghiottiti e annullati da quella ufficiale. Così il discorso dall’azione si sposta sul piano psicologico, su un’acuta introspezione dei protagonisti. Il film si svolge, attraverso un montaggio aritmico, in due location, intervallate ogni tanto dalla visione di aspre montagne, che ricordano simbolicamente la durezza della guerra. Nella prima – una stalla claustrofobica, caratterizzata da una luce radente e da colori cupi e freddi, che diventano man mano più scuri – domina un senso di palpabile fisicità, venata del bisogno di conoscenza reciproca (espressa da frasi come “avvicìnati" o “come è il tuo volto?”) nonché di calore umano. Ma a fare da protagonista è soprattutto la paura, che “unisce le persone” e che attanaglia i due, i quali, scambiandosi alternatamente i ruoli, vedono l’uno consolare l’altro nei momenti di debolezza. Il secondo luogo – uno stanzone dove i prigionieri devono dichiarare le proprie generalità a un ufficiale inglese – è più luminoso, quasi a configurare che la paura lascerà finalmente il posto alla catarsi. Qui il gioco gira tutto attorno a quella “parola data” che non bisogna trasgredire. Perché quel giuramento? Lo spettatore – intrappolato in una voluta ambiguità, sottolineata da una musica tesa e dal finale che si chiude inaspettatamente e perciò quanto mai aperto – può solo formulare delle ipotesi, visto che non ci è dato di sapere cosa sia accaduto fra i due momenti narrati. Un buco narrativo che fa sì che ognuno possa colmare come meglio crede quella tessera di puzzle che manca. Ogni ipotesi va dunque bene per giustificare quel giuramento: il voler scotomizzare, o almeno non renderla pubblica, la vergogna per una situazione quanto maiumiliante o ancor più l’onta, insopportabile per un comandante di una brigata fascista, di aver pianto come un bambino pensando alla probabile, imminente morte (cosa che infrange contemporaneamente il mito del maschio e del fascismo). Ma può essere anche altro: il non voler che si sappia il piacere provato per un contatto fisico, obbligato sì ma anche gradevole e talora cercato dai due, se non addirittura qualcos’altro che potrebbe essere accaduto (come un bacio, peraltro naturale, vista la vicinanza delle due bocche). Quest’ambiguità, questo “non detto”, è l’arma vincente di una sceneggiatura calibrata e senza sbavature e di un team di persone in stato di grazia – in primis il supervisore artistico Ivan Stefanutti, il direttore della fotografia Flavio Zattera e la musicista Marina Penzo – che fanno di questo corto un gioiello, curato in ogni particolare e denso di significato. Un significato che si esalta soprattutto nel rapporto profondo e autentico che si viene a creare fra i due protagonisti, legati – non a caso la corda è un elemento visivo costante, dalle evidenti valenze simboliche – da un senso di complicità e di umana pietas, che permette di attenuare il dolore e lo scoramento. Pur accomunati dal caso, i due protagonisti – ritratti in più occasioni in pose sensuali, di plastica bellezza, ravvivata da una luce caravaggesca – trovano infatti assieme il coraggio per superare quel momento tremendo; merito delle parole ma anche del contatto fisico perché talora, grazie ad esso, anche se “forzato”, tocchiamo un angelo, destinato magari ad aiutarci nella nostra risalita. Vincenzo Patanè [Critico Cinematografico]
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta