Regia di David Gelb vedi scheda film
Re-Animator.
Una volta affidavamo ad un antico cimitero indiano il corpo senza vita dei nostri affezionati animali e, spesso, anche dei nostri figli, mogli, o coloro che la morte ci strappava via, affinché quella terra arcaica, magica e prodigiosa, ce li restituisse indietro così da poter riprendere il cammino insieme, làddove era stato bruscamente interrotto.
Solo per renderci amaramente conto che quello che si era irrimediabilmente rotto non poteva più essere aggiustato.
Il corpo ritornava, certo, ma la persona o l’animale che tanto avevamo amato in vita non c’era più; al suo posto un essere infernale, una creatura malvagia portatrice di morte, mossa esclusivamente dalla sete di vendetta contro coloro che egoisticamente l’avevano riportata alla vita.
Oggi il cinema horror ripercorre nelle tematiche gli stessi identici sentieri di un tempo ma si rinnova nel suo approcciarsi all’orrore, sempre il medesimo che da sempre racconta.
E allora, i cimiteri indiani vengono sostituiti dai laboratori di ricerca scientifica, le credenze popolari dall’osservazione empirica, l’ineffabile miracolo della resurrezione ridotto ad un freddo processo di riattivazione elettro-neurologica.
The Lazarus effect tratta proprio del lavoro di messa a punto da parte di un piccolo gruppo di scienziati di un siero neuronale capace di impedire il decadimento cerebrale nei pazienti in stato comatoso.
Si può comprendere che il siero venga testato sugli animali piuttosto che somministrato direttamente agli esseri umani, però non si comprende il perché tale siero venga iniettato nel cervello di animali morti.
Morti e refrigerati. E non piuttosto, secondo logica, di animali in coma.
Forse per non scatenare l’ira funesta delle associazioni animaliste.
Animali che, proprio come in un racconto dell’orrore, dopo il ‘trattamento’, ritornano in vita.
Totalmente guariti nel corpo e della malattia per la quale sono deceduti o sono stati soppressi.
Prima ma non ultima incongruenza presente in questo film che film non è, per la sua totale mancanza di criterio, perché privo di un intreccio anche solo minimamente accettabile, per quanto manchi di coerenza riguardo a ciò che afferma e ciò che invece mostra.
Limitandosi a rimpinzare il non-racconto della miglior tradizione dell’horror movie (sci-fi) senza affatto preoccuparsi di fornirgli un senso, dargli una direzione ed un’evoluzione, conferirgli una forma.
E così, il ‘blobboso’ pastrocchio indigesto -telefonatissimo- frulla arcinoti stilemi orrorifici combinandoli con psicoanalisi spicciola, pseudo zone morte, fenomeni paranormali (in)controllabili, possessione demoniaca, patetici tentativi di imbastire un contraddittorio tra ciò che sostiene dogmaticamente la fede e ciò che documenta la scienza.
Un compiaciuto guazzabuglio che si prefissa l’obiettivo di indurci a riflettere -ancora- sulla ineluttabilità della morte, sull’impotenza dell’uomo dinanzi ad essa, nonostante perseveri nel travestirsi da dio.
Per rammentare (a chi lo avesse mai dimenticato) che esiste un limite, una linea (mortale) di confine oltre la quale non è possibile spingersi.
Ad un’attenta osservazione, tuttavia, ci pare scorgere in The Lazarus effect il tentativo ambizioso di creare un saggio filmico dimostrativo (un esperimento?) sui meccanismi, oliati e rodati, alla base della paura così come la conosciamo al cinema. E la loro efficacia, sempre e comunque, nell’applicarli.
Questo giustificherebbe l’assenza di senso, e di immaginazione, il ricorso scopiazzato alle innumerevoli citazioni, l’esecuzione tecnicamente perfetta ed emozionalmente raggelata, la breve durata, l’utilizzo smaccato dei più classici espedienti atti a far sobbalzare dalla poltrona.
Lo spavento, infatti, è praticamente pilotato per come è annunciato e sottolineato dai decibel in picchiata, e i chiaro-scuri, la perenne penombra dominano incontrastati la scena, tessendo, secondo manuale, una fitta rete di (supposta) palpabile tensione. E la presenza dei più svariati topoi del genere non sembra nemmeno tanto ingiustificata: l’impressione di fondo è quella di una certa programmaticità nel realizzare Lazarus, come a voler ribadire che l’horror non è morto, può resuscitare tutte le volte che lo si desidera, basta fornire a una qualsiasi storiella che passi per la mente una stuzzicante idea di base e farcirla di tutti i cliché da pelle d’oca del caso, et voilà il gioco è fatto.
Ma come il non-film stesso dimostra, fallendo nelle sue intenzioni, senza un’anima non si va da nessuna parte.
Almeno cinematograficamente parlando.
Un disastro di proporzioni bibliche.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta