Regia di Giorgia Farina vedi scheda film
E' cosa nota che il principale difetto della commedia italiana contemporanea consista nell'incapacità di raccontare il paese con il cinismo e la cattiveria che caratterizzava i film di maestri come Pietro Germi, Dino Risi e Mario Monicelli. Aggiungiamo noi che la materia su cui "accanirsi" non mancherebbe di certo e che la crisi in cui versa la nazione meriterebbe più coraggio e meno conformismo. Per questo, con i limiti che poi spiegheremo, accogliamo con piacere l'uscita nelle sale di "Ho ucciso Napoleone" di Giorgia Farina, regista de "Amiche da morire", lungometraggio d'esordio che non senza sorpresa si era imposto come uno dei film italiani più visti della stagione.
A predisporci favorevolmente, sia ben chiaro, non è lo sguardo d'ambiente ne la ricerca di quella verosimiglianza che permetteva ai cineasti del passato di arrivare alla verità dei fatti o per lo meno alla loro interpretazione, bensì il contrario. Infatti, nel raccontare la sua storia e l'umanità che la compone, la Farina adotta una lente deformante che allontana il film da qualunque intento di realismo, collocandolo piuttosto dalle parti di certa commedia nera che in Italia si vede di rado e che, per esempio, nel caso di Pappi Corsicato, uno dei pochi a praticarla (Il volto di un'altra), finisce il più delle volta per non essere capita. In "Ho ucciso Napoleone", sia nel bene che nel male è il personaggio di Anita (Micaela Ramazzotti) a farla da padrone, con la vendetta nei confronti dell'uomo che l'ha messa in cinta e fatta licenziare, utilizzata dalla regista per innescare il giro di vite che coinvolgerà Biago (Libero De Rienzo), timido avvocato segretamente innamorato di lei e per questo disposto ad aiutarla e il gruppo di squinternate amiche, altrettanto sintonizzate sui propositi dell'aggressiva erinni. Ed è proprio il punto di vista di Anita, con le sue ossessioni riconducibili a un trauma infantile e con il suo stile di vita eccentrico e stravagante, a costituire il termometro di una vicenda insieme tragica e bizzarra, che deve la sua credibilità alla fusione dei registri messi in campo (comico, drammatico e surreale) e dei generi utilizzati (la commedia con venature thriller e noir); tutti, nessuno escluso, chiamati a fare da specchio alla schizofrenia caratteriale della fredda e anaffettiva Anita così come al servilismo incondizionato del tenero Biagio. Una coerenza narrativa che la Farina persegue anche sul piano estetico visuale, costruito su analogie cromatiche che vedono il colore rosso ritornare continuamente negli accessori (la vernice che macchia il vestito di Anita e che poi diventa una striatura dei suoi capelli) e nelle saturazioni fotografiche di Maurizio Calvesi, a suggerire in entrambi i casi il dualismo tra eros e thanatos che sottende al sodalizio raccontato dal film. E ancora, dotando la storia di quella connotazione di devianza dalla normalità, percepibile da alcune inquadrature in cui le figure umane e soprattutto Anita, occupano lo spazio in maniera decentrata rispetto al centro della scena, oppure nelle riprese dal basso verso l'alto che enfatizzano la distorsione dell'ego della donna, bisognosa di sovrastare il mondo circostante.
Certo, i punti di contatto - e quindi la ripetitività - con il lavoro precedente sono molti, a cominciare dalla guerra dei sessi collegata a una vendetta tutta al femminile, per continuare con il fatto di utilizzare una trama che si tinge di giallo per rimescolare le carte tra le fila dei buoni e dei cattivi. E anche la sceneggiatura, pur buona quando deve tratteggiare le psicologie e le azioni dei due protagonisti, non riesce a fare il suo dovere nel momento in cui si tratta di salvare dalla macchietta alcuni ruoli comprimari, come quelli interpretati da Iaia Forte e da Thony. Ma dalla sua parte la Farina può vantare il camaleontismo caratteriale di Anita e Biaggio (i bravi Ramazzotti/De Rienzo), due personaggi politicamente scorretti (il titolo del film allude al modo in cui la donna si disfa del pesciolino di cui si doveva prendere cura) che attraversano la storia con una dose di perfidia e di doppiogiochismo raramente rintracciabili nelle nostre produzioni. Sarà forse per questo che "Ho ucciso Napoleone" trova i suoi punti di riferimento nel cinema straniero ancor prima che in quello italiano, con il suo cotè di femmine folli e maschi in depressione imparentati da vicino con la tipologia umana immortalata da un fuoriclasse della settima arte che risponde al nome di Pedro Almodovar.
(pubblicato su ondacinema.it)
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