Regia di Giorgia Farina vedi scheda film
Due certezze.
La prima: Micaela Ramazzotti è bellissima ma non è esattamente un mostro di bravura quanto a recitazione. Qui sventola il suo repertorio fatto di smorfie, faccette, bronci d'ordinanza, sguardi ammiccanti: il tutto un po' a caso, con una generale ottusa fissità che però, in fondo, visti i toni farseschi del film e il personaggio che deve indossare (donna in carriera, anaffettiva, risoluta e pure stronza) non disturba affatto. Anzi.
A disturbare, semmai, è il film stesso. E qui veniamo alla seconda certezza: Ho ucciso Napoleone (titolo che desta curiosità ma non significa una beneamata gravidanza indesiderata) è una commedia nata morta.
Per un po' si sta al gioco, nell'attesa che il ritmo decolli, la storia si sviluppi decentemente e che un minimo di senso faccia, timidamente, capolino. Tutto vano: la sceneggiatura è scritta da cani, infarcita di semplificazioni e scorciatoie sulle quali viene richiesto di sorvolare (pretesa assurda), unicamente retta sullo spunto (esile) che apre le danze (ovvero la vendetta della protagonista, ingiustamente licenziata, probabilmente dallo stesso amante che l'ha messa incinta). Questo finché, dopo circa un'oretta, il film s'accascia su sé stesso, rantola, si spegne, e infine cade (come corpo morto cade): lo spunto, esaurito bellamente in una mesta nuvoletta di «missione è compiuta-e vissero felici e contenti-e mo' che famo?», abortisce svanendo nel nulla dal quale era stato concepito.
Da qui la genialata: il ribaltamento di ruoli. Inverosimile come la linea perfetta al nono mese di gravidanza della Ramazzotti, inaccettabile come quell'orrenda brodaglia bollente allungata che gli americani chiamano caffè, ridicola come le pretese sociali legate all'attualità (in ottica ovviamente femminile: il maschilismo imperante nel mondo del lavoro, la maternità, le difficoltà nel conciliare vita personale e professione, le famiglie allargate e il lesbismo) di cui l'opera vorrebbe tanto fregiarsi (per celare e giustificare, naturalmente, la palese pochezza). Trattasi in realtà di soluzione posticcia - e alticcia, e pasticciata -, di coda appiccicata, di mero balordo riempitivo: non si crede (più) a niente, una volta squarciato il velo di un pressappochismo stupefacente.
La regista nonché sceneggiatrice (ahia) Giorgia Farina, già recidiva per via del dimenticabile (dimenticato) Amiche da morire, vorrebbe probabilmente farsi portatrice di un'idea di commedia differente dai modelli in vigore, magari ripetendo il successo di un film come Smetto quando voglio (lontanissimo per modi, tempi, scrittura), ma anche di un'impronta personale, di un mo(n)do femminile così malamente raffigurato generalmente nell'asfittico panorama contemporaneo. I titoli di coda coloratissimi, i toni tendenti al surreale-grottesco, la commistione di generi e topoi, la carica umoristica nera (sì e no un paio di battute vanno a segno, giusto perché Libero De Rienzo ci mette faccia e mestiere), la musica invadente ai limiti del molesto (in pratica sono le varie canzoni a dettare il ritmo!): molto fumo, solo apparenza, poca sostanza. Soprattutto una gestione delle risorse maldestra, che denota forse attitudine ma non virtù alcuna né tanto meno fantasia.
Quella che evidentemente si pensa di possedere nel momento in cui si mette Elena Sofia Ricci a fare la pusher, Iaia Forte la tossica, la ritrovata - ma pessima - Thony (la cantante protagonista del gradevole Tutti i santi giorni di ... tale Paolo Virzì) un avvocato isterico, e un pesciolino rosso da chiamare Napoleone per inventarsi uno strambo titolo-simpatia.
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