Regia di Carlo Verdone vedi scheda film
Un bel film nell’aspetto sordiano: la critica alle illusioni e alla superbia dei poveracci, culturalmente parlando, dell’italiano medio, alla lente d’ingrandimento del milieu romano.
Ma tradito proprio da Sordi, per quanto solo in parte: la sua ingerenza nella sceneggiatura portò il film un po’ lontano dalle ottime intenzioni di Verdone. La stessa parte recitata, peraltro assai bene sotto certi versanti virtuosistici, da Sordi, è eccessivamente caricaturale. Ma soprattutto il bilancio complessivo del film risente in maniera notevole della scarsa credibilità del finale, quando l’avvocato interpretato dall’Albertone nazionale si mostra uno schizofrenico, vittima di frequenti cambi di personalità, fuori controllo.
Ciò detto, si parla comunque di una sceneggiatura in cui, oltre a giganti come Verdone e Sordi, compaiono il grande autore di fiducia di quest’ultimo, come Sonego, e Sergio Leone. Splendida la colonna sonora di Venditti.
In più, è un film efficacemente didascalico sugli anni ’80: il mito della moto, con il riferimento alla Parigi-Dakar, è un esempio di come vi si trova l’immaginario dell’epoca, specie nei sogni inarrivabili, nelle aspirazioni troppo facili, nella leggerezza che scollina facilmente nella superficialità, che è madre della presunzione, che è madre del fallimento (tratto tipico dell’antropologia anni ’80, quella disastrosa dell’immagine consumistica della vittoria del capitalismo, e di quella illusoria delle masse ad esso asservite e da esso ingannate per essere controllate meglio). Tale vuoto è ben evidenziato in tanti personaggi di Verdone (Viaggi di nozze…).
Così come ritorna un classico di Sordi: il suo e corretto antiamericanismo, intelligente quanto misconosciuto.
Anche qui Verdone mostra la sua grande vena attoriale: memorabili alcune scene, specie quella iniziale, del rapporto quasi sessuale col flipper. Per non dimenticare le sue millanterie, con cui vuole proporsi come impavido: straordinario il “daje er ciak” con cui avrebbe rotto gli indugi con un regista preoccupato per la scena pericolosa che avrebbe fatto recitare a Verdone medesimo. Il quale è sempre straordinario anche per la mimica manuale: unico il modo in cui usa il medio al posto dell’indice, impegnando così tutta la mano con grade effetto scenografico.
È lo spaccone insoddisfatto, frustrato, bisognoso di mentire per nascondere a se stesso e agli altri ciò che è davvero. Ma ugualmente autentico quando mostra appunto tali ambizioni: in lui giovane ci possiamo riconoscere in svariati milioni, di italiani e non solo. Il confronto col divismo spinto, la virilità esibita, l’antico immaginario del bello e sofferente, del duro, del bastardo impenitente che ha così tanta presa in un certo immaginario femminile… ha un perfetto contraltare nel riconoscimento dei propri limiti: avere una faccia da buono rende proco credibile la maschera del latin lover,
E, oltre alla sofferenza del “vorrei ma non posso“, tale consapevolezza di autenticità è pure un vantaggio, umanamente parlando, rispetto a tanta facciata, sotto la cui maschera trasuda la miseria di tanta inautenticità e di tanto cinismo. Cioè di tanta disperazione.
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