Regia di Aleksandr Sokurov vedi scheda film
Un importante memorandum per l'Europa e il mondo che mette al centro l’arte e la pittura, specchio di ciò che eravamo e prova tangibile di ciò che (purtroppo) siamo diventati. Ma anche spazio nel quale le profonde differenze finiscono per annullarsi sovrastate dalla Bellezza che non le riconosce perché aliena alle meschine dinamiche dell’uomo
Che cosa saremmo noi, chi sarei stato io se non avessi visto dipinti gli occhi di coloro che sono stati uomini prima di me? (Aleksandr Sokurov)
Come la potremmo definire quest’ultima fatica del grande Sokurov che ci parla non solo del destino dell’arte, della Storia, dell’uomo in quanto essere pensante, della memoria, ma anche dell’identità di un’ Europa (di ieri e di oggi) in fragile e instabile costruzione che stenta a decollare, unita solo in apparenza, ma che ha addirittura seri problemi di “tenuta” proprio per come è stata concepita, e della quale parla quasi come fosse stato un padre fondatore?
Difficile circoscrivere in una sola, univoca gabbia non sufficientemente articolata, il grido sconsolato lanciato del regista, ma se vogliamo provare ad essere almeno un po’ sintetici, credo che si possa partire dal fatto che ci troviamo di fronte a una pellicola che tratta in primo luogo del Louvre (a cui rende un particolare, più che sentito omaggio) e della sua importanza non solo culturale, ma anche identitaria e che lo fa, tenendosi lontano dal percorrere le strade consuete del documentario fine a se stesso, privilegiando invece una struttura ben più impervia e complessa che sviluppa e propone una (peraltro originalissima) contaminazione dei generi di riferimento.
Questo rappresenta però solo il punto di partenza di un andamento narrativo molto più stratificato che ha l’obbiettivo (direi perfettamente centrato) di traslarsi in un sorprendente, singolarissimo tributo alla bellezza, quella che si irradia e percepiamo dalla visione delle straordinarie opere d’arte che accoglie quel museo (inteso come “simbolo” e non come univoco fine, e quindi in sostanza oggetto/soggetto dell’accorata riflessione di Sokurov).
Forse semplicemente un “pretesto” (se mi passate l’uso di questo riduttivo termine) peraltro splendidamente utilizzato per fare un’analisi acuta ed accurata dei perversi rapporti che intrecciano il potere con la cultura in un gioco metacinematografico che spazia fra varie epoche anche molto distanti fra loro, utilizzando linguaggi e formati differenti.
Una nuova e stimolante elegia dunque (fra le tante che il regista ha realizzato nella sua ormai lunga carriera) in cui la carne al fuoco è davvero tantissima, ma l’equilibrio è come al solito notevole e ben mantenuto dall’inizio alla fine (solo con qualche piccolissimo cedimento nella parte centrale del racconto), e dove è ancora l’arte - omaggiata in tutte le sue forme – a fare da collante e a confermarsi al centro della sua personalissima visione delle cose.
Insomma se qui si parla soprattutto del passato (la seconda guerra mondiale) è proprio verso il presente che è orientato il suo sguardo e la sua critica, poiché viviamo in un’epoca in cui non solo l’arte (reperti archeologici compresi), ma anche la civiltà ormai “ferita a morte”, viene ogni giorno oltraggiata nell’indifferenza generale con una barbarie che non è solo distruttiva, ma anche un obiettivo nascosto di profitto illecito (i finanziamenti “sotterranei” che mantengono in vita il califfato in continua espansione che ormai ci minaccia molto da vicino).
Il film diventa così una vera e propria celebrazione di questo patrimonio primario dell’umanità e del suo ruolo salvifico (che almeno fino ad ora era riuscito a conservare), fondamentale per la sorte di ogni uomo interessato al futuro, e per questo “obbligato” (non in senso impositivo ovviamente) a preservare il più intonso possibile il suo passato proprio nel suo essere il riconosciuto simbolo di una identità culturale che non può essere dismessa e che, al contrario, proprio nei tempi bui che stiamo attraversando, ha un assoluto bisogno di essere tutelata ad ogni costo offesa com’è dalle tante, troppe guerre che continuano a insanguinare il nostro mondo che rischiano seriamente di mettere in discussione un “sereno” domani privandoci della memoria delle nostre radici, se vogliamo tramandarla ai posteri nella sua interezza e senza troppe inopportune manomissioni, ma che purtroppo è invece fortemente minacciata da un presente distratto che si dimentica anche di ricordare.
Un’opera dunque solenne e problematica di straordinaria rilevanza (anche un tantino criptica, se vogliamo, nella sua costruzione ad incastri che utilizza materiali diversi ed eterogenei, riscattata però e resa grande, da una forma ineccepibile, rigorosa e affascinante al tempo stesso) che riesce a trasmettere l’angoscia (terribile e spiazzante) e il conseguente annichilimento (anche personale), per il possibile depauperamento (già in stato avanzato) di un inestimabile “capitale” di bellezza e sapere (che cosa saremmo noi, chi sarei stato io se non avessi visto dipinti gli occhi di coloro che sono stati uomini prima di me?).
Un messaggio potente (che è molto più di un amareggiato avvertimento) che Sokurov ha ripreso e ribadito anche nel corso della conferenza stampa a Venezia: le idee più belle, ma anche quelle più orribili, vengono da un’Europa che ormai è alla deriva. E questa civiltà ha accumulato errori su errori – basti pensare alla Crimea e all’Ucraina che hanno portato a una catastrofe morale finendo per trasformare il tutto in una tragedia.
In sottotraccia dunque il film sembra volerci parlare di uno smarrimento generale che attraversa classi e paesi e che i politici non sono in grado non solo di considerare, ma anche di percepire in tutta la sua pericolosità – figuriamoci se possono provare a risolverlo e a trasformarlo in positività e azione (e questo Sokurov ce lo dice a chiare lettere non soltanto quando afferma che è ormai impossibile pensare di avere da loro delle risposte che adesso non sono assolutamente in grado di formulare, ma che di fatto non hanno mai saputo dare, perché ce lo comunica anche (e in maniera molto più limpida e definitiva) attraverso questa singolare escursione nel passato da lui utilizzata per comporre ed orchestrare un disperato Requiem in memoria di ciò che non solo nella sua Russia e nel resto dell’Europa, ma nel mondo intero, è già andato perso per sempre.
Si guarda insomma Francofonia e il pensiero va immediatamente al sacrificio di Khaled Assad, l’archeologo ucciso dai militanti dell’isis perché difendeva i preziosi reperti del museo di Palmira (la sua morte – e sono ancora parole del regista -, la distruzione dei siti archeologici, sono atti bestiali, pura barbarie. Davanti ai nostri occhi vengono annientati monumenti secolari. E noi siamo impotenti osservatori altrettanto lascivi dei potenti che dominano gli instabili equilibri di un mondo in ebollizione ai quali abbiamo vigliaccamente demandato le nostre sorti e facciamo davvero troppo poco per svegliarli dal letargo, anche se sappiamo che non dovrebbe essere più possibile tergiversare ancora).
Il film inizia con la descrizione della storia del palazzo in cui è sorto il museo e col racconto di come ha avuto origine la “costruzione” e l’accumulo del suo immenso patrimonio artistico, che i Si incastra però immediatamente dopo, dentro ai filmati dell’occupazione nazista, alternati alla presenza dei protagonisti della storia, alcuni “reali”, come l’allora direttore del museo Jacques Jaujard e il conte Franziskus Wolff-Metternich[1] (è proprio di loro due che si parla in primo luogo, e della loro alleanza atta a salvare i tesori dell’arte nella Parigi occupata, nonostante che fossero separati da incolmabili divergenze politiche e di pensiero[2]). Loro stessi sono però mischiati (e quasi confusi), con molte altre figure di “finzione” ugualmente preziose e funzionali nel definire al meglio le tesi del regista, fra le quali la Marianna, l’immagine stessa della Francia (qui riproposta col suo proverbiale berretto grigio, secondo l‘iconografia tramandataci dal quadro di Delacroix) che si aggira fra le ombre e i fantasmi del museo e ribadisce in ogni dove quelli che sono i principi fondamentali della vita di ogni uomo (nati dal sangue della rivoluzione francese, ma ancora al giorno d’oggi clamorosamente disattesi: Libertè, Égalitè, Fraternitè), e Napoleone I che ha reso grande il Louvre sulle macerie (e il saccheggio) degli stati europei di volta in volta da lui conquistati e depredati, entrambi fattisi carne e usciti letteralmente fuori dai dipinti che li rappresentano, esposti alle pareti della pinacoteca, per ritornare poi però anche allo stesso Hermitage (che era stato al centro della sua Arca Russa) qui riproposto ai tempi altrettanto bui dell’'assedio di Leningrado, e – con un fortissimo balzo temporale - a un mercantile che ai giorni nostri, viaggia e beccheggia dentro la tempesta, come se si trattasse di una moderna arca sbattuta senza sosta dalle onde, in procinto di affondare insieme al suo prezioso carico di quadri che rischiano di finire per sempre in fondo all'Oceano (che sembra parafrasare in qualche modo - anche se qui ci troviamo in presenza di un qualcosa di ben più solido di una zattera – Il naufragio della Medusa di Géricault).
Particolare rilevanza (se non superiore, almeno pari a ogni altro elemento portato in primo piano dal regista) deve essere assegnata (e riconosciuta) proprio a questa nave alla deriva (simbolo anche troppo evidente della cultura in sofferenza e del patrimonio artistico altrettanto minacciato, ma anche – aggiungo io – di quello paesaggistico forse maltrattato ancor di più, preda com’è della speculazione edilizia) che perde progressivamente i container pieni di opere d’arte che un fantomatico museo sta facendo trasportare (inopinatamente) in giro per il mondo.
La breve sequenza del suo affondamento, è particolarmente suggestiva (ma anche altrettanto inquietante): nulla resiste alla furia vendicativa di un rabbioso mare in tempesta che è una forza della natura senza coscienza, e questo lo sappiamo bene, ci ammonisce il regista. Purtroppo però anche la politica che dovrebbe invece essere “pensante” perché praticata dagli umani che un cervello ce l’hanno o dovrebbero averlo, si rivela invece all’atto pratico una forza altrettanto devastante e ugualmente incosciente che fa correre all’arte rischi ancor più pericolosi.
Uno stato ha bisogno di un museo per esistere (Aleksandr Sokurov)
Il potere – soprattutto quello assoluto dei tiranni, ha sempre cercato di autocelebrarsi attraverso la “ruberia” di uno straordinario patrimonio artistico acquisito come trofeo di guerra da esporre come simbolo di conquista in spazi museali spesso creati ad hoc nel proprio paese, ed era già una grave prevaricazione. L’isis però (che era una minaccia ancora in embrione quando il film è stato concepito), con le distruzioni di massa che sta operando, si presenta adesso come una catastrofe ancora più immane perché con la sua insensata cecità quei cimeli li distrugge in nome di una religione che più barbara non si può,, e questo rende il film, al di là della sua bellezza, anche di una attualità davvero sconcertante.
In Francofonia (che è portatrice di un profondo pessimismo, appena mitigato dall’autoironia[3]) non c’è – dobbiamo dirlo subito - la magistrale consistenza del suo Faust che immediatamentelo precede, ma non per questo deve essere considerata un’opera minore perché minore non lo è affatto: è solo un po’ diversa nella sua struttura (anche da Arca Russa alla quale era stata invece impropriamente apparentata durante la lavorazione). Se vogliamo, è meno compatta ed avvolgente rispetto a questi due superlativi capolavori (e questo a partire proprio dal progetto estetico) nel suo essere più variamente stratificata e assemblata e non univocamente orientata in una sola direzione.. Qui il Louvre infatti non rappresenta la scena dell’azione in cui viene sviluppata questa riflessione critica fatta attraverso la stessa voce del regista che si rivolge direttamente al pubblico (cosa saremmo noi senza la bellezza, non è forse l’arte a definire la nostra identità? Cosa sarebbe l’Europa senza la memoria di sé, Parigi senza il Louvre?) , ma diventa esso stesso un “personaggio, il protagonista vivo di tutto il percorso narrativo che si esprime attraverso la Gioconda e il suo sorriso ambiguo ed enigmatico (fra l’invitante e il compiacente), la Vittoria di Samotracia, i ritratti e tutte le altre pitture, i tori alati dell’Assiria, Amore e Psiche del Canova, gli Schiavi di Michelangelo, il tutto reso straordinario da un cinema davvero imprevedibile che ha momenti in cui pare di trovarsi dentro a un’opera di Godard.
Questo, non solo per il tono che definirei “inconfutabile” (abbastanza insolito in Sokurov) col quale vengono pronunciate le affermazioni più politiche, ma anche e soprattutto per l’ironia sottesa di amarezza che attraversa gran parte della pellicola, la messe eterogenea dei materiali visivi a cui ho già accennato prima che contribuiscono a dare al film la dimensione grafica di un ingarbugliato, intelligente guazzabuglio (un miscuglio continuo, visionario e geniale, di materiali di repertorio, di foto d’epoca, di ricostruzioni “fedelmente fantasiose” come quel piccolo aereo che solca le sale più grandi del Louvre che si risolvono a volte in una specie di teatro animato dove nella Parigi occupata dai tedeschi, immortalati da due operatori alla Lumière di pura fantasia, passano anche turisti con abiti dell’oggi), o per le conversazioni via computer (utilizzando Skype) col capitano della nave, a cui si associano frequenti rimbalzi temporali fra il passato remoto della scultura giordana di novemila anni fa, e quello molto più prossimo, dei recenti conflitti mondiali (un vertiginoso salto compiuto in pochi istanti che lascia sbalorditi e commossi capace più di ogni altro marchingegno di darci una visione più complessiva della situazione). Su tutto, domina comunque il presente della proiezione che ci riporta appunto alla distruzione mirata attualmente in corso della storia antica del mondo, ed è vivificato da un sonoro altrettanto intelligente che fa lievitare ogni cosa al rango di una sublime sinfonia audio-visiva capace di avvolgere lo spettatore intrigando positivamente con la potenza delle parole e delle immagini, la sua intelligenza e i suoi sensi.
Organizzato dunque come un film che opera su più livelli narrativi che mischia il tempo anche all’interno dello stesso girato, Francofonia va ben oltre l’idea di un museo come semplice contenitore per preservare l’arte poiché Sokurov riesce a farlo diventare il ritratto connotativo di una nazione, di un continente, del mondo intero, nel suo essere il guscio che preserva al suo ’interno, il codice genetico identitario della stessa civiltà.
I palazzi crollano (sono sempre “crollati” o fatti crollare, anche nel passato): Babilonia, Ninive, Troia, Dresda, e adesso pure la Palmira riportata alla luce dagli archeologi che rischia seriamente di essere di nuovo – definitivamente – perduta (siamo già a buon punto purtroppo) per la cui tragica sorte, possiamo dire che Sokurov è stato purtroppo un funesto “profeta”.
[1] Franziskus Volff-Metternich era l'uomo mandato da Berlino per ispezionare e catalogare l'inestimabile patrimonio artistico del museo parigino e trasferirne in Germania una parte. Un uomo che ritardò talmente tanto la “deportazione” di quei capolavori consentendone così il parziale trafugamento “conservativo” da parte del direttore del Museo, un comportamento che già nella primavera del 1942, gli costò la rimozione da quel delicato incarico decisa dallo stesso Hitler.
[2] Jacques Jaujard era il conservatore in carica nel momento in cui la Francia fu occupata dai nazisti. Del conte Franziskus Wolff-Metternich ho già parlato invece nella precedente nota. I due erano molto diversi anche come estrazione sociale (un funzionario statale l’uno, un aristocratico nazista l’altro) oltre che come idee politiche che li rendeva di fatto nemici e “avversari” , ma questo non impedì loro di collaborare insieme, di farli diventare addirittura complici, al fine di preservare i tesori dell’arte e ciò che rappresentano.
[3] L’autoironia – dice ancora Sokurov – è nella scoraggiante consapevolezza di dover assistere al ripetersi delle cose senza poter fare nulla. Ho vissuto gran parte della vita sotto il regime sovietico. C’è stato un momento in cui sembrava che i problemi di censura fossero alle spalle e invece vedo risorgere le stesse cose. Abbiamo condannato il nazismo ed ecco che sono di nuovo in auge movimenti neonazisti non solo in Russia, ma in tutto il mondo e avanzano strisciantemente subdoli nel loro essere ammantati di un pericoloso populismo che li rende biecamente popolari. Proprio per questo io sento un estremo bisogno di un’Europa capace di ritrovare le sue radici: io non potrei proprio vivere senza, e forse è per questo che sono così accorato. Io e molti altri russi come me, moriremmo se questo progetto ardito di un’unione compiuta dovesse alla fine naufragare o si limitasse a restare semplicemente quel mostro burocratico e economico pieno di incongruenze che è adesso.
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