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Francofonia

Regia di Aleksandr Sokurov vedi scheda film

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La recensione su Francofonia

di EightAndHalf
8 stelle

Uno dei film più  complessi di Aleksandr Sokurov è anche uno dei più importanti della sua intera filmografia, anche se forse non dei più perfetti – il che non è per forza un male. Stiamo parlando di Francofonia, in concorso a Venezia 72. Stiamo parlando di un altro tassello fondamentale aggiunto al discorso estetico sokuroviano, quello dell’ibridazione delle arti per il raggiungimento di nuovi, alti, risultati formali.

 

 

Francofonia è compenetrazione di forme, di stili visivi e di formati diversi. Sokurov si mette in primo piano, non solo per l’onnipresente voce fuori campo (già presente, per dirne uno, in Spiritual Voices), ma anche per la sua figura, presente in alcune scene sempre con il volto nascosto e sempre colta in un atto di profonda costernazione e riflessione. Nel suo studio, vicino al telefono e davanti al computer collegato ad una chat con il marinaio Dick, Sokurov contempla i container pieni di opere d’arte costretti ad affrontare le intemperie di un mare in tempesta. Un mare, a rifletterci, non troppo diverso da quello ondeggiante e nebbioso del finale di Russian Ark. E la gigantesca tristezza che lo afflige è proprio dovuta al dubbio per ciò  che potrebbe accadere a quelle opere, la rovina di migliaia di anni di arte pittorica, scultorea, indirettamente anche architettonica.

 

 

Inizia così un viaggio che, analogamente ad altre elegie sokuroviane, passa direttamente per uno stream of consciousness in realtà molto ponderato, ma fatto di una successione apparentemente irregolare di pensieri, eventi storici, apparizioni simboliche, che non hanno di fatto un ordine cronologico-razionale, ma perseguono ben altro intento. Francofonia è infatti il film che non ci aspettavamo perché più ascrivibile al gruppo di elegie documentaristiche realizzate a metà carriera (da Sonata per Hitler fino all’Elegia di San Pietroburgo) che ai film di finzione veri e propri. Un film irregolare, criptico non tanto nelle intezioni quanto nella “difficile” forma, non di immediato impatto né presa, ma sempre accompagnato da un respiro solenne, ieratico, cui già da tempo il regista russo ci ha abituato.

 

 

Alla fine Francofonia è una preghiera. La preghiera di Sokurov alla Storia perché non distrugga secoli e secoli di arte, quella mania atavica di ricreare la realtà dei volti e degli sguardi (il ritratto, proprio dell’arte europea). La preghiera all’Arte perché possa finalmente ribellarsi alla voglia innata degli uomini di ammazzarsi a vicenda distruggendo ciò che sta loro intorno. Ma come concepire l’arte, se essa stessa è legata alla Storia, e intrisa della violenza degli uomini (le magnificenze scultoree delle statue assire, le grandi dorate tombe dei faraoni)? Come scindere le due realtà?

 

 

La risposta di Sokurov è la seguente: dare una nuova definizione di Arte, probabilmente “darle vita”. La struttura metacinematografica assume a quel punto la sua ragion d’essere, il suo zenit espressivo, perché il film che Sokurov sta realizzando è esso stesso lo strumento per gettare i nuovi canoni estetici capaci di prendersi una rivincita sulla distruzione. Ecco dunque che i viraggi dei fotogrammi, i movimenti di fronte ai dipinti, che “dànno loro vita”, le confusioni sogno-realtà che si prestano ottimamente ai lavori onirici di Hubert Robert (vedasi il corto omonimo), sono quello stesso ibrido sopra citato di modi espressivi, di modalità dimostrative e cinematiche. E il Louvre è il teatro di questi tormenti interiori, laddove riappaiono i fantasmi della Marianne (da Delacroix), di Napoleone, e dell’arte tutta che Sokurov tenta di risvegliare (“Cechov, Tolstoj, svegliatevi”). Da brividi in particolare due sequenze: la sua mano che sfiora la mano di una statua, o il dito di Napoleone che picchietta sulla teca di una mummia per tentare di ridestarla.

 

 

Alla fine in Francofonia si partorisce un’Arte tutta nuova, forte, quella che irrompe nel dialogo tra Jaujard e Wolff-Metternich a prevedere il loro futuro. E si capisce che siamo noi stessi Altrove, fuori dalla Storia, in una landa tutta diversa che vede il mondo da fuori, che vede il mare su cui quel mondo naviga in tondo senza una meta.

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