Regia di Lenny Abrahamson vedi scheda film
“Room” è scritto senza articolo, propriamente, perché nel mondo del piccolo Jack le cose sono il loro stesso nome: fa parte della strategia di sopravvivenza elaborata per lui e con lui da “Ma” considerare come “propri” i nomi altrimenti “comuni” delle cose, li aiuta (aiuta soprattutto Jack, che non ha mai conosciuto altro) a sentirsi parte di un mondo, e non ad essere gli esclusi (reclusi) dal mondo, insopportabile consapevolezza dalla quale mamma Joy vuole comprensibilmente preservare suo figlio, almeno fino al quinto anno di età. Poi, una svolta. Quella che può sembrare una dicotomia, una rottura, uno spezzare la storia in due per raccontare due storie diverse, in realtà credo si debba interpretare come la vita delle farfalle, dove Jack, nei primi cinque anni, è quel bruco che vive sostanzialmente felice (la quotidianità dei due, tutto sommato, fatta la tara dei momenti di tensione in cui appare in scena l’aguzzino, è in fondo una vita serena), e che successivamente, dopo il trauma della crisalide, dovrà, non senza riluttanza (“non posso avere di nuovo quattro anni?” chiede Jack a sua madre, intuendo le complicazioni che si stanno prospettando), imparare a volare.
Il capanno/carcere è dunque soltanto metaforico (prova ne sia la velocità e l’indifferenza con cui esce di scena “il mostro”), il pretesto per un magnifico “racconto di formazione” in cui tutto si tiene benissimo fino ai minimi particolari: la foglia secca sul lucernario che mamma Joy “spiega” a suo figlio, e che sarà il primissimo oggetto, la prima “cosa” con un articolo, finalmente reale, che Jack terrà fra le dita una volta libero; il “dente cattivo” che il piccolo tiene con sé come la parte eterna di sua madre; il cane Seamus che sarà il potersi liberare di Jack dalla fasulla necessita di Lucky, il suo cane irreale; l’offesa al polso di cui ha patito Ma e che riapparirà sul piccolo braccino di Jack ad opera dello stesso aguzzino.
Il tutto raccontato splendidamente, anche ricorrendo alla voce di un “io narrante”, un diario mentale col quale Jack conduce se stesso e lo spettatore attraverso la sua avventura di bambino selvaggio (la scelta dei capelli lunghi diventerà anch’essa metafora nella seconda svolta, quella in cui farà dono a sua madre della forza dei suoi capelli), ma soprattutto (e qui va dato pieno merito al regista) ad un lavoro complicatissimo, ricco, estremamente frastagliato e nervoso di inquadrature brevissime, secche, spasmodiche, attraverso le quali viene resa egregiamente tutta la drammaticità del “crescere” di Jack, assolutamente preminente rispetto alla drammaticità dell’essere prigioniero. E proprio questo tipo di lavoro voluto dal regista, non può che esaltare l’impressionante prestazione del piccolo Jacob Tremblay: se solo si prova a pensare a quanti “ciack” questo piccolo divo ha dovuto affrontare, non si potrà più liquidare la sua prestazione come semplicemente “convincete”, ma dovrà dirsi come minimo superba, non meno di quella di Brie Larson, sua madre: una per tutte: l’espressione del suo volto, come riesce ad accendere il perfetto sorriso al suo primo incontro, visivo e tattile, con quel cagnolino tanto desiderato.
“Room” è un film meraviglioso, sorprendente, commovente, intelligente, niente affatto banale, perfetto sotto ogni punto di vista.
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