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Room

Regia di Lenny Abrahamson vedi scheda film

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La recensione su Room

di pazuzu
6 stelle

 

Jack ha cinque anni, e da quando è nato vive in una stanza di tre metri per tre con la madre Joy: fuori non c'è nulla, gli ha detto lei, e quando c'è bisogno di qualcosa c'è Old Nick, che trova le cose con la magia, arriva e le porta. Jack e Joy non escono mai, perché la porta blindata ha la combinazione, e la conosce soltanto Old Nick. Lì dentro, però, Jack non si annoia, perché nella stanza ha tanti amici: c'è Gabinetto, che è bravo a far sparire la cacca, c'è Armadio, dove la madre lo chiude ogni volta che viene Old Nick, c'è Lucernario, che serve ad avere un po' d'illuminazione quando Old Nick gli toglie la corrente, e poi c'è Televisione, che riesce a contenere nello schermo tante cose vive. A tutti questi amici, Jack dà il buongiorno quando si sveglia e la buonanotte quando va a dormire; e vorrebbe anche condividere il cibo con Topo, ma lui alla mamma proprio non piace, tanto che ogni volta che lo vede cerca di schiacciarlo.

 

 

Per tutti i primi cinquanta minuti, la telecamera di Lenny Abrahamson non osa mai uscir fuori da quella che ottimisticamente viene chiamata stanza ma che di fatto è il fatiscente ambiente unico di un piccolo capanno: cinquanta minuti stranianti e claustrofobici, nel corso dei quali lo spettatore familiarizza con il mondo ovattato e fantastico che Joy ha costruito attorno al proprio figlio, per proteggerlo nell'unico modo possibile da una realtà assai più drammatica, e per donare a quella sua costrettissima infanzia almeno un'imitazione della dimensione ludica che le spetterebbe; fino a quando, inevitabilmente, decide che è giunto il momento di giocarsi tutto e spiegargli come stanno veramente le cose: che fuori da quella porta c'è il mondo, popolato da persone alle quali chiedere aiuto per venire salvati.

 

 

Tratto dal romanzo omonimo di Emma Donoghue, autrice anche della sceneggiatura, Room potrebbe essere un ottimo film, ma si limita ad essere appena discreto perché, diviso (dis)organicamente in due tronconi, paga dazio alla scelta di raggiungere l'apice del pathos alla metà esatta della propria durata: l'uscita della telecamera all'aria aperta fa infatti da detonatore a quello che, di lì a poco, sarebbe il finale perfetto di un thriller breve ma bello, teso e compatto. Così però non è, perché anziché chiuderla lì, Abrahamson e (prima di lui) Donoghue hanno l'ardire di cambiare radicalmente sia il registro che il fulcro del racconto: il thriller vira dunque in dramma familiare e, anziché l'immediata sopravvivenza dei due protagonisti, i temi portanti divengono da un lato lo svezzamento di Jack alla vita reale, con conseguente abbandono del cuscinetto di bugie salvifiche su cui la madre lo aveva adagiato, e dall'altro i patimenti di lei, mentalmente e fisicamente esausta, e ancora soggetta a lacrime e disperazione. Ma se l'ambizione di azzardare un simile salto mortale è di per sé legittima, altrettanto lo è la delusione per il conseguente fallimento, perché il racconto si allenta, e la forza che aveva nella prima parte rimane solamente un mero ricordo, tanto da far sembrare la seconda null'altro che un estenuante excipit lungo un'ora.

 

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