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Cefurji raus!

Regia di Goran Vojnovica vedi scheda film

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La recensione su Cefurji raus!

di OGM
6 stelle

Il titolo ricorda un noto slogan xenofobo dei naziskin, circolante negli anni immediatamente successivi alla riunificazione tedesca.  E il concetto sottostante è ben noto alla gente italica, che, in termini culturali o economici, non ha mai del tutto superato la divisione tra nord e sud. Quello che, nella Slovenia dei giorni nostri, distingue i cefurji dalla popolazione locale è, a sua volta, un divario esprimibile in termini di punti cardinali. Da una parte i ricchi nativi del settentrione, dall’altra i poveri immigrati del meridione, provenienti dalla Bosnia, dal Montenegro, dalle più lontane regioni della Serbia e della Croazia.  Dejan, Adi, Aco e Marko sono ragazzi costretti a vivere la loro adolescenza da emarginati, da esseri diversi, forse addirittura inferiori, riconoscibili come tali per il loro accento e per quei cognomi dalla grafia particolare, tutti rigorosamente terminanti in ic. Difficile distinguere, nella causa di quel loro bighellonare senza meta, il disagio psicologico dovuto alla mancanza di identità dalla frustrazione per i pregiudizi subiti, che a volte sembrano concretizzarsi in vere e proprie forme di persecuzione. Sono sbandati, ma forse hanno tutte le ragioni per esserlo: sono cresciuti da esuli, figli di una ricerca di salvezza e benessere che è fonte di enorme pressione. Si trovano in quel luogo con uno scopo preciso: riuscire, laddove i loro genitori hanno fallito, sul piano professionale o personale. Sono eredi di un sogno trapiantato a forza in un terreno estraneo, nella speranza che lì possa diventare realtà. Vivono protetti e sorvegliati da vicino da una comunità rimasta chiusa dentro le proprie tradizioni e tenuta insieme da un corporativismo di carattere arretrato, che mescola il vecchio cameratismo sovietico con la solidarietà di stampo contadino. Intanto, però, devono potersi affacciare sul mondo esterno, allineato ai modelli occidentali e diffidente nei confronti di tutto ciò che odora di stantio. I loro padri li vorrebbero contemporaneamente dentro e fuori la cerchia familiare, fedeli alla mentalità del paese di origine, però allineati ai canoni della nuova Europa, al carattere competitivo di una società che coltiva i miti del consumismo, del successo, dell’adeguamento alle mode correnti come segno di emancipazione. La storia raccontata dal romanzo e dal film di Goran Vojnovic è semplice, paradigmatica di tante situazioni nelle quali lo sradicamento non desiderato, ma praticato per motivi di necessità, finisce per inibire la disponibilità ad integrarsi, a vedere la terra ospitante come un patrimonio di possibilità tutte da esplorare. Si preferisce allora rassegnarsi al senso di vuoto, riempiendo il deserto dell’assenza di patria con trastulli ed evasioni che servono solo ad allontanare dall’anima l’angoscia di non sentirsi se stessi, e non sapere che fare. Le consolazioni a portata di mano, per i giovani e gli adulti, sono, come di consueto, la droga, l’alcol, la violenza, le illusioni artificiali che sostituiscono le emozioni soffocate dall’impressione di essere individui sbagliati in un posto sbagliato, che, per di più, non è disposto a perdonare alcun errore. Questa vicenda, intessuta della rabbiosa smania scatenata dal non poter essere, si muove con passo incerto e senza slancio, incespicando a ripetizione nell’incapacità – propria e dei personaggi stessi – di imboccare strade originali. L’aria cupamente scanzonata della nouvelle vague balcanica si è fatta qui un po’ viziata: ma forse è solo colpa della pesante disillusione di un mondo che si credeva speciale, eccezionalmente crudele ed infinitamente cinico, e ora, d’un tratto, si scopre identico, nei suoi mali, all’insipida e pigra mediocrità dell’universo globalizzato. 

 

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