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Aferim!

Regia di Radu Jude vedi scheda film

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La recensione su Aferim!

di Peppe Comune
8 stelle

Siamo intorno alla metà del XIX secolo, in Valacchia, nella parte interna della Romania. Costantin (Teodor Corban) e il giovane figlio Ionita (Mihai Comanoiu) vengono assoldati da un ricco Boiardo (Alexandru Dabija) per dare la caccia a Carfin (Toma Cuzin), uno zingaro fuggito dalle terre del potente signore perché accusato di aver violentato la moglie (Luminita Gheorghiu). Il vecchio poliziotto e suo figlio si addentrano nel brullo territorio della regione, passando per molti villaggi e parlando con persone di diverse etnie. Per entrambi, il viaggio diventa l’occasione per conoscere meglio se stessi. Per Ionita diventa una sorta di iniziazione alla vita adulta, per Costantin l’occasione per capire quanto il suo ruolo di tutore della legge sia in linea con la povertà estrema che gli capita di toccare con mano. Soprattutto alla luce del fatto che Carfin sembra molto meno colpevole di quello che l’orgoglio ferito del potente Boiardo voglia accreditare come una verità assoluta.

 

Teo Corban, Mihai Comanoiu, Alberto Dinache

Aferim! (2015): Teo Corban, Mihai Comanoiu, Alberto Dinache

 

“Aferim !” di Radu Jude è un viaggio picaresco dentro il cuore multietnico della Romania, tra padroni feudali che esercitano nelle proprie terre un potere assoluto e bande di briganti che arbitrariamente si prendono le loro efferate rivincite. Tra numerosi villaggi dove impera la legge del sopravvivere e le diffidenze culturali che ognuno cerca di far emergere con ostentata acidità. È girato in un bianco e nero vivido di luce, avvolto in un sole che accompagna la caccia dei due protagonisti. A colpire subito è la bellezza dei paesaggi, catturati dalla macchina da presa con vivida partecipazione iconografica. A grandi pianure arse dal sole, che rischiara a mezzogiorno ogni cespuglio secolare, seguono fitte boscaglie che nascondono possibili imboscate. Anche le bettole maleodoranti e i disadorni villaggi brulicanti di gente malmessa affascinano lo sguardo, perchè catturate nella loro essenziale consistenza formale, perché fanno emergere la miseria per quella che è, brutta sporca e cattiva, senza alcuna estetizzazione compiaciuta. Lungo tutto il viaggio, i cavalli si muovono con discreta baldanza, conferendo al tutto una tonalità quasi da film western, e come in un western ad emergere prepotente è un modus operandi molto caratterizzante la trattazione in chiave cinematografica del genere, quello di perseguire il rispetto della legge in una terra dove vige soprattutto la legge del più forte.

I più forti non sono naturalmente gli zingari, considerati gli anelli deboli di una società dove anche i più miserabili hanno la possibilità di vantare su di loro qualche rivendicazione. Loro sono colpevoli e basta, capri espiatori di un microcosmo che si regge sull’arte dell’arrangiarsi. Non serve scoprire che c’entrano molto meno di quello che sembra dei crimini di cui sono accusati, se si è deciso che sono colpevoli verranno puniti di conseguenza. Questa marginalità sociale si lega da sempre alla comunità rom, e oltre a servire lo scopo di far emergere un carattere fondativo del tessuto sociale della Romania, ha dato la possibilità a Radu Jude di creare un legame filologico tra la storia di ieri e i fatti di oggi, tra le vessazioni che i più deboli dovevano subire dai potenti di turno e la tendenza ancora invalsa di giustificare il sorgere dei pregiudizi con l’adesione acritica della moltitudine al senso comune dominante. Questo aspetto narrativo del film si evince soprattutto dal mutato atteggiamento che Costantin va assumendo rispetto alla sua stesa funzione di tutore dell’ordine sociale. Durante tutta la sua missione ha modo di conoscere la reale natura delle colpe dello zingaro, e non solo gli sembra del tutto sproporzionata la pena che gli dovrà essere inflitta, ma esageratamente penosa gli appare all’improvviso tutta la miseria che larghi strati del popolo è costretta a vivere. Un atteggiamento mentale che cresce poco alla volta e che prende piena consistenza di fronte all’irremovibile decisione del Boiardo, che prova un piacere sadico nell’infliggere al sedicente violentatore una punizione esemplare. Il vecchio si scopre più vicino allo zingaro di quanto fosse riuscito ad immaginare in precedenza, partecipi della stessa disperazione e delle stesse debolezze. Poveri entrambi, di quella povertà che spinge, l’uno a praticare espedienti anche illeciti per poter sopravvivere, l’altro a esercitare per pochi soldi una caccia senza posa per ripristinare un po’ di ordine nelle campagne. Questa evoluzione caratteriale del padre si riflette nel rapporto con il figlio, che proprio attraverso questo viaggio intende iniziare il suo ingresso nella dura vita dei grandi. Inizialmente, Costantin è abbastanza rude nel suo modo di fare, deciso a far valere il suo ruolo di tutore della legge ad ogni costo, intento quindi a mostrare al figlio che occorre vestirsi di prepotenza se si vuole avere rispetto. Poi assume un tono più meditabondo, più incline a capire le ragioni di chiunque si barcameni tra le mille difficoltà del quotidiano, come chi intende consegnare al giovane figlio una fotografia più estesa e più vera del mondo che stanno vivendo. Tutta la parte finale, tutto il modo in cui lo sviluppo narrativo della storia porta a disegnare sulla faccia di Costantin una delusione trattenuta appena per i destini dell’umanità, sembra suggerire il lascito definitivo che il padre trasmette al figlio: che non vale la fatica di una caccia così estenuante consegnare nelle mani di un ricco signore quello che in fondo è un povero disperato come loro. Un signore che ha la pancia troppo piena per mettersi ad ascoltare le ragioni dell’altro.

Un lascito che arriva fino a noi, portato da questo bel film.          

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