Regia di Giacomo Lesina vedi scheda film
Unità aristoteliche (di tempo, luogo e azione) per un film che vorrebbe essere enigm(ist)a come Saw, che vorrebbe seppellire vivo il suo personaggio come fece Buried, che vorrebbe sfidare lo spettatore nel sadico gioco sulla decodifica degli indizi. Vorrebbe, ma non può. Perché per la costruzione della cattività senza apparente via d’uscita non bastano punti macchina ben studiati, arredi di sicuro impatto (l’auto con i finestrini blindati, la maschera antigas e il crescente fumo di scarico agganciano un immaginario da post-apocalisse, tratteggiando un luogo che è ultima frontiera dell’umana speranza) e una fotografia opprimente. Serve una sceneggiatura capace di scartare quando mai te lo aspetteresti, di intrecciare livelli narrativi in compenetrazione, di costruire un rompicapo per frustrare lo spettatore e relegarlo al rango di inetto. Nella storia di Elena - moglie di un gangster che si ritrova rinchiusa in un garage invaso da monossido di carbonio, provvista solo di un cellulare - l’intreccio è bucato come uno scolapasta: ogni scelta della protagonista è illogica, ogni dialogo con l’esterno grottesco (perché l’ispettore al telefono perde tempo a interrogarla sul marito, quando i minuti sono contati? Perché Elena non comunica allo sbirro ciò che vede fuori dalla finestrella?), ogni motivazione psicologica superficiale. La scrittura del finale, poi, tumula ogni apprezzabile sforzo di Lesina, regista debuttante da tenere comunque d’occhio.
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