Regia di Merzak Allouache vedi scheda film
Certi film si guardano negli occhi. Capitano insieme, nello stesso luogo, come per specchiarsi uno nell’altro. Ad unire Madame Courage e Why Hast Thou Forsaken Me – opere partecipanti alla sezione Orizzonti della Mostra del Cinema di Venezia – è la dolorosa autoreferenzialità dell’emarginazione, quel forzato egocentrismo che induce a plasmare il mondo ad immagine e somiglianza delle proprie manie. Omar e Muhamad – protagonisti delle due storie, l’uno algerino, l’altro israeliano – vivono ai margini di città nelle quali arrangiarsi significa confrontarsi costantemente col male: con il crimine che umilia i sentimenti umani, con il peccato che sfida l’identità religiosa. Per ristabilire l’equilibrio, senza stravolgere la propria vita, può giovare un temerario salto nell’oblio: l’ebbrezza indotta dalle droghe o lo stordimento che ci si procura fuggendo via da sé. Il viaggio è, in entrambi i casi, puramente virtuale, improntato ad un’alienazione dalla realtà che odora di avventura, e si gloria di impugnare simbolici trofei (un candelotto fumogeno, un coltello). I deliri dei due ragazzi rappresentano i due volti – romantico e perverso, rispettivamente - dello stesso protagonismo malato: quello di chi, nato perdente, vuole farsi re, salendo sul trono della propria solitaria stranezza. Distinguersi significa allora separarsi dalla folla per inseguire il proprio sogno senza speranza, che basta a riempire il vuoto semplicemente perché è popolato di visioni, e richiede costante attenzione. Omar ama Selma, e diventa il suo stravagante stalker, così come Muhamad si attacca al vecchio Gurevich, per essere il suo apprendista, la sua ombra, il suo complice. L’ossessione fornisce un punto di riferimento, che dà una forma corporea alla frustrazione, consentendo di trasformarla in un gioco, una fantasia, un passatempo mentale. Il regista Merzak Allouache ritorna sui suoi temi prediletti, la diversità e il disagio dei giovani del Maghreb, per intessere un’elegia, muta, scarnificata, dell’emozione coltivata segretamente nel cuore, per mancanza di riscontri nella realtà circostante. La poesia amorosa, per Omar, è una magia che a lui, scippatore, non può appartenere: per questo la nasconde, coprendola dietro un pudore che la trattiene a malapena, facendone trapelare solo gli acuti maniacali, trasfigurandola in una follia da marciapiede, che vive in mezzo ai rifiuti, e all’occorrenza, si tinge di rabbia e di sangue. Questo è il suo modo di scappare dalla crudele monotonia della lotta per la sopravvivenza, per rivendicare il diritto a sognare l’impossibile, a desiderare di essere pulito in un ambiente sporco. L’evasione dal luridume – che in Bab El-Oued City si concretizzava nell’ipotesi di imbarcarsi ed emigrare – è qui tentata mediante il ricorso a sostanze stupefacenti, che apparentemente danno forza e fanno cadere i freni inibitori. Questa scelta – forse un po’ fuori dal tempo - di interiorizzare l’orizzonte della fuga per la salvezza, rischia, a dire il vero, di far naufragare gli intenti realistici della narrazione in un deserto di sottintesi, di discorsi lasciati a metà per indisponibilità di parole adatte alla situazione. Il film, in effetti, presenta un aspetto più incompiuto che irrisolto, e lo smarrimento del protagonista si traduce in una rarefazione spinta, non adeguatamente supportata dalla suggestione. Il dramma – come se fosse velato, anch’esso, dalla stessa vergogna che affligge Omar – affiora solo attraverso le sue manifestazioni estreme. Tutto il resto rimane sommerso nel pallore dell’indecisione, in un languido senso di impotenza, troppo simile al tedio, troppo lontano dall’azione a cui prelude.
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