Regia di Duncan Jones vedi scheda film
Gli orchi non mentono.
Le fonti di ispirazione cinematografica “mainstream” sono indubbiamente cambiate, nell’ultimo ventennio: non solo adattamenti di romanzi, quindi, ma di fumetti e videogiochi più o meno famosi. Un serpente che si morde la coda, in parecchi casi, essendo questi medium (meno il primo del secondo) già ampiamente derivativi da idee cinematografiche varie. Il rischio di saturazione si fa quindi più presente ad ogni nuova uscita, stante lo sfruttamento intensivo di “filoni” non sempre aurei e il progressivo prosciugamento dei pochi spunti interessanti.
“Warcraft – L’inizio”, in particolare, si ispira all’omonimo videogames “MMORPG”, che non è il nome di un orco o una battuta di Mel Gibson ma sta per “Massive Multiplayer Online Role-Playing Game”, in pratica un gioco di ruolo in rete multigiocatore di massa. Famosissimo e famigerato, di ispirazione fantasy e più tatticamente complicato di quanto si pensi, viene giocato da milioni di persone nel mondo, anche con (ricchi) tornei a squadre organizzati dalla casa produttrice (l’americana “Blizzard Entertainment”).
Il film, diretto dal promettente Duncan Jones, prende l’avvio in maniera spedita: un’invasione di giganteschi orchi provenienti da un altro mondo in un regno apparentemente rigoglioso ed in pace. Circostanza sicuramente non nuova in tali ambiti ma abilmente “sedimentata” nell’esplicazione della (semplice) trama, in maniera netta e senza tedianti “spiegoni” indirizzati al solo culto degli adepti World of Warcraft. Tale funzionale svolgimento introduttivo rappresenta indubbiamente uno dei pregi della pellicola (co-sceneggiata dallo stesso regista), insieme al tentativo non completamente riuscito di dare più spessore ed ambiguità a personaggi e situazioni altrimenti ampiamente risaputi (i buoni, i cattivi, l’ordalia), bypassando così le secche del trito manierismo fantasy. Gli orchi vengono quindi umanizzati: non più solamente ottuse macchine da guerra ma esseri capaci di slanci d’onore e atteggiamenti “sociali”.
I difetti, purtroppo, sono anch’essi ben visibili: se i dialoghi sfiorano la sufficienza, le interazioni tra i vari personaggi sono gestite superficialmente e, a volte, scioccamente; con scambi veloci che poco spiegano e poco avvincono, non sorretti peraltro da un montaggio maldestro che lascia alcune situazioni palesemente tronche. Mal gestite anche le situazioni di alleggerimento, con ironie spesso malamente inserite in siparietti inverosimili in rangeni frenetici di lotta. Gli effetti speciali, anche se a volte pacchiani per eccesso cromatico, non disturbano alfine eccessivamente, pur essendo (ovviamente) onnipresenti. Gli attori principali fanno il loro dovere, senza infamia e senza lode, anche il (sulla carta) predestinato Travis Fimmel, un po’ svagato, il quale forse mostrerà le sue doti sulla lunga distanza degli immancabili seguiti (è il protagonista di “Vikings”, una buona serie tv partita in sordina e giunta ormai alla 4^ stagione).
Un finale aperto conclude questo terzo lavoro sulla lunga distanza del regista statunitense, innegabilmente un mezzo passo falso rispetto ai “fasti” di “Moon” del 2009 e di “Source Code” del 2011, ma non così pessimo da negargli una ulteriore apertura di credito.
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