Regia di Luca Ferri vedi scheda film
Il cinema si spoglia della sua corazza di visibilità, e si fa penetrare dal caso. Lo raggiunge così una ventata crudele e pungente, che lo attraversa con il gusto sadico di chi sa bene di avere l’ultima parola su tutto, e dunque si diverte a ripeterla all’infinito. La morte è la materia preferita del suo gioco, a causa di quella definitiva libertà che regna sovrana, una volta che le scelte individuali si sono compiute, sono state vissute, esaurite, sepolte per sempre. Ricordarle, in un beffardo ordine sparso che suona come la filastrocca di una maledizione, serve a riempire il vuoto del suo vero significato, che è il ritorno di tutto al primordiale, e livellante, nonsense del caos. L’estetica, gelida e graffiante, dello sperimentalismo di Luca Ferri è il fumo di un calderone in cui, senza alcuna distinzione, si rimescola l’intera sostanza dell’umanità, dai defunti dimenticati nei cimiteri alle glorie del passato che tutti continuano a nominare, ma che sono ugualmente ridotte a scheletri e polvere, non meno anonimi e scarni di tutti gli altri. Tocca al povero Abacuc, un omone solitario che ama aggirarsi senza meta tra i sepolcri, con in mano un vecchio libro di scienze, dare a quella desertificazione il significato di una sintesi che, mentre cerca disperatamente di giungere al punto, non smette di ribellarsi alla perentorietà della sua missione: vorrebbe infatti poter proseguire in eterno la sua opera di distruzione, derisione, vanificazione di ogni pensiero. Il suo desiderio è quello di non smettere mai di uccidere gli uccisi, riportando alla luce le tracce delle loro esistenze, per poi ricacciarle con scherno nel fondo dell’oblio.
Il protagonista - ed unico personaggio vivente – della storia è indotto dalla noia ad offrirsi come muta comparsa di quello spettacolo, a fare da spalla alla voce dell’aldilà che ci richiama all’atroce realtà del non ritorno intonando un cinico ed interminabile refrain. L’emarginazione di Abacuc deve trasformarsi nella particolare condizione del profeta minore – la figura biblica che porta il suo nome – che è un misto di privilegio e svantaggio, ed è tipica di colui che vede più lontano dei suoi simili, e perciò è condannato a soffrire molto e rimanere incompreso. L’eco di un poetico e doloroso guardare oltre fa di questo film il documento di ciò che, per la ragione, è inutile dire, e che ciononostante insiste, e preme per uscire, dentro le anime sensibilizzate dalla sorte, e nei luoghi silenziati dall’indifferenza. E se il preciso contenuto di tante misteriose espressioni può risultare indecifrabile, fin troppo chiaro è, invece, il motivo che spinge la parte sognante della mente ad esternare, in quel modo convulso, gli acuti del suo allucinato sgomento.
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