Regia di Lionello De Felice vedi scheda film
Un bel film, molto sottovalutato, che ha delle alte vette (la recitazione di Totò, e il messaggio), che però vengono compromesse da una sceneggiatura che nella seconda parte è poco credibile e significativa.
Totò recita in modo straordinario, in più vesti: sia quella del poveraccio, sia quello del ladro, sia quello del ruffiano, sia quello della star inattesa. Ruoli diversi, interpretati in modo magistrale in un’unica pellicola. Non stupisce per uno della sua caratura artistica, ed è ben assecondato da tutti gli altri: il ricco che si fa irretire da una maliarda (Bramieri), la maliarda stessa (Simone Simon smorfiosa, insopportabile, falsa, opportunista), il ladro di classe (un eccelso Jean Claude Pascal), l’avvocato astuto (Mario Castellani), il consesso dei ricchi (tra cui spicca il grande vecchio Achille Majeroni).
Il messaggio riguarda proprio i ricchi: anche tanti di questi sono stati ladri. La differenza è che, parafrasando uno di loro nel film, hanno i mezzi per non farsi scoprire, a differenza dei ladri comuni. Questa denuncia della disonestà su cui si sono fondate tante fortune economiche (se non viene vista come un dogma, come invece hanno fatto i grandi e comunque geniali sostenitori di questa teoria, da Rousseau a Marx, con la foga dei loro eccessi), resta un evergreen. A ciò fa il paio l’altra denuncia, quella della finanza che può permettere imperi di carta, cioè basati su scalate fittizie: il ricco che diventa tale, talvolta, perché si basa non su una ricchezza reale, ma su investimenti azzardati, su un credito senza adeguate coperture. Si pensi che questo, uno dei drammi del mondo contemporaneo (per i danni prodotti sulle moltitudini), era già palese non solo nel ’54, data di uscita del film, ma addirittura nell’11, quando è ambientato. Infatti quella, l’età giolittiana, è stata l’era del primo boom economico nostrano (non certo per merito di Giolitti, ma quelli erano i tempi in Occidente), quella della seconda rivoluzione industriale.
Detto dei pregi, vanno citati anche i difetti, imputabili alla sceneggiatura (che non è affatto da buttare via, però: come si evince dal brillante impianto teatrale, e nella gestione degli equivoci). Non si capisce perché le vittime ricche vogliano blandire Totò con le dolcezze, anziché inchiodarlo ai fatti; e perché alla fine Gastone si autodenunci. Incongruenze gravi, ma che non spostano troppo al ribasso il valore del film, impreziosito da tante perle del genio partenopeo: il piagnisteo retorico e la menzogna per impietosire, un classico mediterraneo; la commozione che rivela un autentico, ma grottesco, orgoglio di appartenenza alla categoria dei ladri (criticando così l’indulgenza verso i ladri stessi, in filigrana, indulgenza che in Italia è spesso attecchita, invece); il ladro che accusa la sua vittima, rigirando la frittata (altro classico dell’impunità tricolore, sempre rinforzata dalla politica, almeno fino a due anni fa); l’inizio in muto, in cui Totò tiene il livello di Chaplin nella parte del poveraccio dignitoso.
Una grande riflessione sul furto e sui ladri, che culmina in ciò: la gente italiana esalta il ricco, lo adora solo perché lo invidia; ma il problema è che non si chiede mai se tale ricco è anche onesto. Non gli interessa sapere se tale ricchezza è frutto di ladrocinio o no: insomma, meglio un ricco disonesto, che un povero onesto. Questa è la radiografia finale della produzione, che dà il polso della corruzione tanto della plebe italiana quanto della società divistica, sistematicamente ingannata dai mass media nel capitalismo occidentale (e non solo).
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