Regia di Jonathan Demme vedi scheda film
Linda, o meglio, Ricki, è un'american girl, ed è fiera di esserlo, seppur sul filo della rassegnazione quando cerca, mediante la sua musica, di rimettere insieme i cocci di un fallito dream altrettanto american. E' per questo che tira avanti con pochissimi spiccioli la missione anacronistica del rock'n'roll, in un mondo in cui - come nel film - sono quasi del tutto scomparsi i bambini o i giovanissimi, forse risucchiati da quelle onde radio che secondo Pete (Kevin Kline) hanno mandato loro in pappa il cervello, o forse finiti in una qualche altra dimensione, in uno sciupatissimo nirvana - che gran gruppo, quello, ci ricorda Ricki. Ricki si pone ancora come figura ribelle, anche se oggi apparirebbe anacronistico pensare di scandalizzarsi per una madre che decide di intraprendere la difficile carriera di rockstar a discapito della famiglia. Sulla carta, anacronistico. Diversamente la pensano tutti gli invitati al matrimonio del figlio Josh. Perché Ricki è un'aliena proveniente dal passato, come se uno dei personaggi più sognanti ma meno (involontariamente) cinici del Nashville altmaniano (1975) fosse rimasto in vita, abbandonando il country per prendere la deviazione Bruce Springsteen. E c'è pure un rapporto indiretto fra quel Nashville e questo Ricki and the Flash, poiché fu proprio Altman a prendere Meryl Streep e a farla cantare nel suo Radio America (2006), che è un ideale antesignano di questo nuovo piccolo grande film di Jonathan Demme.
Una volta tanto non è scontato dare della bravissima a Meryl Streep, perché il personaggio rappresenta una quasi totale novità per lei. La Streep riesce a sostenere sia quei rari momenti di caduta della sceneggiatura di Diablo Cody - forse una delle più fintamente originali sceneggiatrici in circolazione, qui evidentemente sotto l'egida autoriale di papà Jonathan - sia le lunghissime scene di canto, in cui la mdp di Demme si lancia nelle sequenze più indimenticabili, quelle delle canzoni, ceneri di un vecchio mondo che si emoziona, purché composto dagli attempati freak di un vecchio locale di Los Angeles. La sua famiglia, per la quale lei è quasi un rimosso, fa difficoltà a reintegrarla, in parte ragionevolmente in parte in maniera eccessivamente miope riguardo ai sogni di quella madre sempre troppo giovane per loro. Una figlia che tenta il suicidio, incapace di agire, forse conscia di stare commettendo gli stessi errori dei suoi genitori. Un figlio che deve sposarsi e che non ha il coraggio di parlare alla madre nonostante il suo comportamento benevolo. Un altro figlio omosessuale che invece esplode in tutto il suo risentimento, ma che forse ha preso proprio dalla madre il ruolo di pesce fuor d'acqua nell'appiattimento borghese che lo circonda (e non solo gli zigomi, come fa notare il discendente di Bruce Lee a fine film). Un rapporto familiare conflittuale, quello che si viene a delineare nel film, perfettamente riassunto dalla frase di Greg (Rick Springfield), frase che già i critici più arguti hanno afferrato: "I figli non sono costretti ad amarti, sei tu che devi amare loro".
D'altra parte il marito Pete è ancora catalizzatore di quella passione per la vita che Ricki ha insita in sé e che lui rischia di dimenticare. E' lui che l'ha amata, forse la ama ancora, ma si adatta al compromesso con un presente che fa solo finta di essere "evoluto". Quello di Kevin Kline è un personaggio stupendo apparentemente defilato, ammorbato dalla superficie delle convenzioni borghesi - ridicole, così come sono ridicole le leziose formalità del matrimonio di Josh. E' in tale fiera di personaggi che Demme, nella disillusione, può approdare al lato più "illuso" del Cinema, per un attimo la realizzazione di un sogno. Irruzione rivoluzionaria in un presente che è in sé anacronistico, e che è fermo a troppi anni prima, e in cui la nostalgia è il solo vero vivere.
C'è chi ha creduto sinceramente nel sogno americano, è suo diritto commuoversi.
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