Regia di Naomi Kawase vedi scheda film
Un film dove il valore della tradizione e la crudeltà della storia si intrecciano fra loro per dare vita a una toccante tensione drammatica che si fa poesia. Un piccolo apologo morale fin troppo trasparente nelle sue metafore sulla ritualità del quotidiano mischiata a un’abbondante dose di filosofia zen dal sapore suadente e inebriante.
Le ricette della signora Toku: questo è il titolo scelto dalla distribuzione italiana per l’ultima fatica cinematografica di Naomi Kawase (responsabile anche della sceneggiatura e della fotografia), che ha avuto l’onore di essere stata scelta come opera d’apertura della sezione Un certain regard del Festival di Cannes della scorsa primavera, dove praticamente la regista è di casa per la frequenza con cui è stata chiamata a partecipare a quella rasegna (ricordiamo che fu della partita anche l’anno precedente con l’ecologista Still Water e che proprio sulla Croisette nel 2007 si portò a casa il Gran Premio della Giuria per l’intenso Mogari no mori, il cui titolo internazionale è Morning Fourest e che nonostante quel prestigioso riconoscimento, è rimasta purtroppo una pellicola fra le meno conosciute e frequentate qui da noi). Un film che nella versione originale, si chiama molto più semplicemente An che è peraltro il nome di una prelibata specialità gastronomica, il dorayaky (per l’esattezza una marmellata ricavata dai fagioli rossi che, spalmata in mezzo a due pancake, è uno de più ghiotti, ricercati e rari dolci del Giappone, dove purtroppo adesso si possono trovare al massimo, solo delle pallide imitazioni.
Nonostante la popolarità (e il gradimento) che gode da parte del popolo di quella nazione, è infatti molto difficile da realizzare perché la ricetta tradizionale, l’unica che può garantire l’eccellenza del risultato, è lunghissima ed anche talmente complicata nell’esecuzione, che ormai quasi nessuno la sa ancora fare. Non fa eccezione in questo, nemmeno Sentaro (il protagonista della nostra storia) che gestisce da solo un chiosco in cui vende un dorayaky che è tutt’altro che all’altezza della fama di questa prelibatezza e che di conseguenza non gli permette di raggiungere i necessari risultati economici che potrebbero garantirgli una serena esistenza.
Gli affari disastrosi del negozio, non sono però per lui l’unico motivo di tristezza e di preoccupazione poiché si sommano alla sua vita già di per sé grama e rassegnata che nasconde un segreto dolore che lo rende scontroso e solitario.
Un giorno però si presenta al negozio una donna molto avanti con gli anni (la signora Toku, appunto) che si propone come sua collaboratrice cuoca e che gioca le carte a suo favore, facendogli assaggiare una squisita versione (la sua) di quella prelibata leccornia (l’an appunto ) che – rinnovando i fasti della tradizione, ha preparato con le sue”magiche” mani sfigurate però da una vecchia malattia, che l'ha tenuta lontana dalle altre persone per gran parte della sua vita.
Dopo le prime resistenze un po’ riottose (motivate anche dalla situazione economica in cui versa la sua azienda) l’uomo, conquistato dai modi gentili della donna, ma soprattutto dal sapore antico di quella pasta dolce fatta proprio come Dio comanda, decide di accettare la proposta, e la assume facendola diventare parte attiva dell’azienda. La sua destrezza culinaria, si conferma così di straordinaria rilevanza, tanto che grazie a quel dorayaky ritrovato, i clienti si moltiplicano e il negozio rifiorisce insieme agli incassi che riprendo a crescere.
Detta così per sommi capi, potrebbe quindi sembrare una bella favola edificante e a lieto fine, sia pure con qualche piccola dose di amaro disseminata qua e là, ma questa invece è solo la premessa, il punto di partenza di una storia che ha tutt’altro spessore e che via via che cresce la stima, la fiducia e la confidenza fra i due, si cangia in nuove forme, che prendono corpo dalla reciproca rivelazione di vecchie ferite mai cicatrizzate, destinate peraltro a fare ancora molto male: lo certificheranno gli avvenimenti successivi (ai quali farò però soltanto piccoli riferimenti per non guastare l’interesse dello spettatore) che coinvolgeranno in prima persona proprio la mite Toku, ma che chiamano in causa anche lo stesso Sentaro (rigenerato dalla spontanea adesione alla vita della donna che fa breccia nel suo cuore) e una giovane studentessa (Wakana) cliente abituale del chiosco di dolciumi, anch’essa oppressa da una dolorosa situazione familiare, e dove a dare pathos alla vicenda, è soprattutto (oltre alla bella prova degli attori) la visione nostalgica (ma al tempo stesso anche umanistica) della Kawase che sceglie di mostrarci un Giappone naturalmente lento e vicino alla natura che purtroppo non esiste più.
A loro (a Sentaro e Wakana) sarà proprio la signora Toku (che parla con gli alberi e capta il loro suono e dedica all’osservazione della natura che la circonda la stessa attenzione con cui controlla la pentola dove per ore e ore bollono borbottando i fagioli) a far comprendere l’importanza di considerare positivamente l’unicità irripetibile di ogni momento, anche di quelli più brutti e sconfortati.
La bellissima figura di questa donna davvero speciale, è anche l’occasione per la regista di rievocare (e mettere a suo modo in discussione) il trattamento riservato in Giappone ai malati del morbo di Hansen - la lebbra appunto – e dei pregiudizi , duri a morire, che esso produce ancora, che possono davvero rovinare la vita alle persone(e in questo si può leggere persino il parallelo con tante analoghe storie del presente che continuano a creare discriminanti stigmi similari dovuti soprattutto all’ignoranza e alla cattiva informazione verso i portatori di patologie altrettanto demonizzate).
La dolce, coraggiosa signora Toku, diventa così, nel deserto opprimente degli affetti che è un tema ricorrente che torna spesso nella filmografia della Kawase, un esempio fattivo - vero e proprio punto di riferimento certo - anche per l’uomo e la ragazza.
Forse però per la regista la cosa più importante, quella per la quale ha realizzato il film (lo si evince dalla struttura “mobile” dell’opera), è il suo prioritario interesse a guardare oltre l’ineluttabile senso di sventura che segna spesso i casi della vita per poi provare a trovarci un senso, la voglia di alzare lo sguardo in alto, sopra i ciliegi in fiore al fine di considerare (e ribadire) che tutto, gli affetti, il cibo, la sofferenza, la malattia e persino la morte (il positivo e il negativo insomma), rientra nel ciclo vitale dell’esistenza che si rinnova continuamente e ciclicamente – come accade anche alla natura - con l’alternarsi delle sue stagioni.
La prima parte del racconto (piena di interrogativi e di profonde suggestioni culturali che raccontano un paese forse ancora da noi troppo poco conosciuto e tutto da scoprire), è indubbiamente quella più riuscita e affascinante (gioca a suo favore il mistero del non detto ben supportato da una colonna sonora rarefatta e affascinante che contrappunta e sottolinea con sottile aderenza l’incontro fra Sentaro e la signora Toku quasi a volerne caricare il senso di sotterranei significati che gradualmente poi verranno portati in superficie).
Nella seconda parte invece – dove fra tutto il resto resta però centrale il tema un po’ retorico del rapporto accennato (e non concluso) tra una “madre” che non è mai stata tale e un “figlio” che non ha fatto in tempo ad esserlo (che è da sempre una nota chiave della particolare poetica della regista che credo possa derivare dal suo sofferto passato che le ha fatto subire il trauma dell’abbandono da parte dei suoi genitori quando era ancora una bambina molto piccola) - il percorso ogni tanto arranca un poco, si fa insomma accidentato e si (ci) confonde mischiando troppe cose fra spontaneismo, ingenuità, e qualche piccola banalità che fortunatamente non inficia o compromette il risultato finale, fattori questi che non rendono però del tutto omogenea la caratterizzazione fortemente simbolica della storia che finisce per cozzare con uno sguardo che in alcuni tratti sembra voler aspirare ad essere meno enfatico e più documentarista.
Minimalista e fin troppo trasparente nelle sue metafore (il riferimento alle tre età della vita – la giovinezza, la maturità e la vecchiaia – simboleggiata dai tre protagonisti) la regista spinge forse un po’ troppo il pedale verso i confini di un calligrafismo esasperato (che sfiora ma non supera mai) con il comunque’eccessivo (anche troppo ostentato) tripudio dei ciliegi in fiore (meraviglia naturale e gloria nazionale) questo piccolo apologo morale sulla ritualità del quotidiano mischiata a un abbondante dose di filosofia zen ed equamente sospeso fra passato e presente, giovinezza e memoria, dal sapore suadentemente inebriante che sa di an, l’impasto dolce dei fagioli rossi che a seconda dei gusti, può scaldare il cuore o intorpidire il palato (Barbara Corsi).
Resta comunque un film importante e da vedere, dove il valore della tradizione e la crudeltà della storia contemporanea, si intrecciano fra loro per dare vita a una toccante tensione drammatica che si fa poesia, il che consente alla Kawase di scansare tutte le rasserenanti trappole (i trabocchetti sentimentali) che ammorbano i tipici film sulla cucina così di moda in questi tempi ma che non possiedono nemmeno un briciolo della sofferenza viscerale che riesce a trasmettere invece questa pellicola.
Ottimi – come già detto – i tre protagonisti: Kirin Kiku, Masatoshi Nagase e Kyara Uchida.
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