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Il diritto di uccidere

Regia di Gavin Hood vedi scheda film

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alan smithee

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La recensione su Il diritto di uccidere

di alan smithee
6 stelle

L'amoralità della guerra è nota sin dai tempi dell'arma bianca: oggi battaglie organizzate a tavolino con droni guidati pongono quesiti ancora più moralmente devastanti. L'occhio nel cielo deve decidere se è plausibile il ricorso ai danni collaterali. Tensione ed impegno con qualche pesante caduta nel ricattatorio.

In guerra la verità è la prima vittima”. Questo ci insegnava già nel 500 a.C. il poeta Eschilo.

Il tempo, la storia, il passare dei secoli non ci ha certo cambiato nello stile, ma solo eventualmente nella tattica e nelle dinamiche dell’agire.

E’ una notte insonne per il colonnello Katherine Powell, donna militare non più giovane alla quale è stato attribuito il compito di condurre una sofisticata operazione di pedinamento e cattura di un gruppo di terroristi pronti a organizzare l’ennesimo attentato kamikaze ai danni della folla innocente.

Attraverso droni e telecamere sofisticate posizionate nei luoghi segnalati da iprimi, l’Intelligence scopre che a Nairobi si sta organizzando un incontro tra i massimi esponenti di una cellula estremista, pronti ad innescare una miccia mortale in un mercato cittadino.

La guerra telecomandata possibile ai giorni nostri intima le coscienze e la ragione della democrazia ad intervenire, ed intercettata la casa ove sta avendo luogo l’incontro, il colonnello si prepara a dare ordini per eliminare dalla radice la minaccia incombente. Peccato che una bambina di nove anni si posizioni proprio ai limiti della zona interessata, esponendo tutti coloro che partecipano all’operazione, dal militare incaricato di premere il tasto al Segretario di Stato, ad un dilemma morale che provoca, almeno inizialmente, uno scarico di responsabilità a cascata come dinanzi ad una serie di Ponzio Pilato della nuova guerra tecnologica.

Da qui il dilemma più devastante: considerare l’infante un “danno collaterale”, ovvero la vittima sacrificale necessaria per evitare centinaia di probabili se non sicure altre morti innocenti, o fermare tutto e perdere l’occasione rincorsa per ben sei anni?

Le soluzioni intermedie finiscono per avere quasi sempre la meglio, ma divengono frutto di calcoli statistici, ipotesi riformulate che perdono la loro attinenza e realismo a fronte di una decisione imminente che non può essere evitata.

D’altro canto, come si congeda verso la fine il colonnello incaricato dei collegamenti con le stanze del potere (lo interpreta il compianto Alan Rickman, qui alla sua ultima interpretazione e alla cui memoria – in loving memory of - il film è dedicato), “mai dire ad un soldato che non sa quanto sia disumana una guerra”.

Il regista sudafricano non particolarmente eccelso Gavin Hood, già responsabile di almeno un film dignitoso e forte di tematiche ad impegno civico-etico-morale (Il mio nome è Tsotsi), dirige un film medio che sa tener desta l’attenzione e giocare sulle dinamiche della supence con destrezza ed abilità.

Coadiuvato da un cast forte di nomi di prima grandezza, con una Helen Mirren che, a dirla tutta, inizialmente nel ritrovarcela settantenne pur dinamica e scattante, ma fasciata di mimetica da marines non può non suscitarci un sorriso spontaneo e di certo irriverente, lo ammetto (senza nulla togliere ad una delle attrici più ammirate e premiate dell’ultimo decennio, forse a Sigourney Weaver la parte si sarebbe cucita addosso in modo più pertinente e “fisicamente” più opportuno), Eye in the sky appare lucido e teso nell’immergerci nei meandri di un’azione che nasce consapevolmente sporca per scongiurare qualcosa di ancora più sporco ed inaccettabile, nel descriversi lo “scarica-barile” quando si tratta di prendersi la responsabilità di azioni che non possono essere evitate, ma in grado di compromettere carriere e smuovere masse di opinione di proporzioni troppo cruciali; il film sbanda gravemente, anche se per fortuna non irrimediabilmente, quando scende in campo per rappresentare il dilemma del singolo esecutore (gli occhi lucidi dei due cecchini “legalizzati” sono davvero insopportabili!!e ci rimandano inesorabilmente ai non positivi ricordi di una pellicola dalle tematiche similari vista in Concorso a Venezia 2014, l’insopportabile e tendenzioso, nonché guerrafondaio Good kill), e quando la dinamica dell’improvvisa apparizione della bimba nel posto sbagliato finisce per divenire l’unico supporto (ricattatorio) per un dilemma, quello delle vittime sacrificali, che invece è presente comunque ed inevitabilmente.

Per fortuna, almeno per le sorti di un film, invero condotto con una certa spigliatezza e senso del ritmo, nonché saggio dosaggio della tensione emotiva, la sorte della vittima sacrificale non si fa influenzare (troppo) dalle dinamiche obbligate di un lieto fine che avrebbe comportato effetti letali ed inaccettabili sull’economia della pellicola.

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