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Tragedia di prostitute

Regia di Bruno Rahn vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Tragedia di prostitute

di (spopola) 1726792
8 stelle

Il film è un crudele melodramma sociale tratto da una pièce teatrale di Wilhelm Braun che narra la storia di Auguste, una prostituta non più giovane che vive in un quartiere popolare insieme alla collega Clarisse (anch’essa da poco iniziata alla prostituzione) e al protettore Anton. Un giorno, dopo essersi tinta i capelli per apparire più  giovane, scendendo sulla strada incontra  in un androne, esausto ed in preda alla fame per i troppi  giorni di digiuno trascorsi senza una meta certa, Felix, uno studente che ha abbandonato la famiglia dopo un acceso litigio col padre. La donna lo invita in casa propria, lo rifocilla e lo accudisce, offrendogli di rimanere lì per la notte, e per tutto il tempo che lui avesse ritenuto opportuno.

Affascinata dall’aitante figura del ragazzo, Auguste medita di cambiare la propria vita e di uscire dalla prostituzione, magari facendo perno proprio su Felix, dal quale è  sempre più attratta. L’idea le frulla così forte per la testa, che quella sera stessa prova ad iniziare il proprio difficile percorso di redenzione, cacciando di casa il suo protettore Anton da lei mantenuto, e pure a lei molto affezionato, ma simbolo (e artefice) di quella condotta di vita che lei è ormai intenzionata a lasciarsi alle spalle. Per rendersi degna dell’amore che prova per il giovane, prende così la decisione di rinunciare definitivamente alla strada e alla sua vita sregolata.

I due passano la notte insieme ma la mattina dopo Felix, per quanto riconoscente verso la propria benefattrice, è fermamente deciso a non continuare il rapporto con lei. Sono infatti in lui molto forti i pregiudizi borghesi (la classe a cui appartiene) secondo i quali è altamente disdicevole accompagnarsi ad una persona che pratica (o ha praticato) la prostituzione.

Auguste non lo trattiene, ma è pronta a dimostrargli coi fatti che intende davvero ravvedersi e il giorno stesso, con i propri cospicui risparmi che dovevano servire per la sua vecchiaia, si reca a pagare l’anticipo per l’acquisto di un negozio di pasticceria, nella gestione del quale si immagina di poter passare un felice futuro in compagnia di Felix.

Mentre la donna è fuori per rendere concreto il suo proposito,  Anton torna nell’appartamento di lei dove, al fine di potersi riprendere la donna che è l’oggetto del suo mantenimento e della quale è anche un poco innamorato, fa in modo di gettare Felix fra le braccia della più giovane e prosperosa Clarisse.

Il piano riesce alla perfezione e Felix che la trova più giovane e appetibile, riserva alla ragazza una partecipazione emotiva molto  più forte di quella che aveva provato  verso Auguste. Le professa così (almeno a parole) il suo amore e le palesa pure la sua volontà di aiutarla a tirarsi fuori dal sordido ambiente dove si è confinata promettendole persino di presentarla ai suoi genitori.

Quando Auguste rientra a casa dopo essersi fermata un attimo al piano di sotto dove vive un vecchio musicista suo amico che ha composto per lei una canzone, ha la brutta sorpresa di scoprireche Felix è nella stanza (chiusa a chiave)  di Clarisse . 

Folle di gelosia e di disperazione, bussa istericamente alla porta che rimane però serrata.

Ha successivamente un acceso scontro con la sua collega di malaffare nel corso del quale l’accusa di aver volutamente ignorato la sua preghiera di non immischiarsi in quella  storia d’amore che lei immaginava di poter intraprendere  col giovane Felix, ma apprende anche che Clarisse non ha alcun vero interesse per lo studente e che il suo è stato solo un capriccio. Questo però non è sufficiente a calmare Auguste che, appannata da una  gelosia perniciosa e disruttiva che le obnubila la mente, scende in strada come una furia decisa a vendicarsi e lì incontra  Anton che si aggirava nei paraggi. All’uomo che sa quanto le sia devoto, chiede di uccidere la rivale e in cambio come ricompensa,  gli promette il regalo del negozio che lei ha appena acquistato.

Anton, succube di Auguste, per quanto riluttante, accetta, e va alla ricerca di Clarisse (che è sulla strada a esercitare la sua professione) con chiari intenti omicidi.

Anche Felix è in cerca della ragazza ed è così che incontra Auguste. Ha con lei un colloquio chiarificatore nel corso del quale  la donna apprende che neanche lui, nonostante quanto avesse detto in precedenza, ama veramente Clarisse, ma che questo non cambia la sua decisione di non voler portare avanti una storia d’amore con una prostituta peraltro molto più anziana di lui. Tornata brutalmente alla realtà, la donna si mette allora alla ricerca disperata di Anton per impedire l’omicidio che gli ha commissionato ma arriva troppo tardi.

Auguste, distrutta da questa conclusione sanguinosa e realmente pentita di essere stata la causa di un inutile assassinio, cerca di convincere Anton a rimanere con lei per sostenerla, ma l’uomo, ugualmente turbato dal suo atto criminoso e imputando alla donna la responsabilità di avergli armato la mano, la abbandona e si consegna alla polizia.

Nel frattempo Felix ha confessato alla madre che un omicidio è stato commesso per amor suo e, dopo aver ottenuto il perdono dalla genitrice, lascia definitivamente  l’abitazione di Auguste per ritornare a vivere nel borghesissimo alveo familiare a lui più congeniale.

La donna, sopraffatta dal rimorso rimane sola e….

Il finale sarà tragico, come forse era prevedibile fin dall’inizio della storia, ma viene trattato dal regista con  particolare tatto e discrezione (come vedremo meglio in seguito) e questo è indubbiamente un punto di forza di tutta la pellicola.

 

Diretto nel 1927 da Bruno Rahn[1]  che era stato un allievo di Pabst[2]  (e si vede) è un film muto (il sonoro, come ben sappiamo, arriverà solo qualche anno dopo) che mantiene ancora al suo interno alcune tracce derivanti dall’espressionismo (deformazioni e contrasti luminosi molto accentuati tipici di quella corrente, giochi con gli specchi, un andamento quasi sperimentale che per rendere al meglio l'atmosfera cupa e claustrofobica di alcune situazioni, gioca molto bene con le ombre trasformandole in sagome sinistre e deformate,  angosciose e affascinanti al tempo stesso, come nella sequenza dell’assassiniocompiuto da Anton raffigurato riprendendo semplicemente la sua silhouette minacciosa riflessa sul muro delle case della strada). Rientra però di fatto  ben più legittimamente, nella  corrente altrettanto innovativa della Neue Saclichkeit (Nuova oggettività[3]) della quale è considerato quasi un precursore, i cui elementi narrativi fortemente caratterizzanti, sono quelli della paura, della rassegnazione, della violenza e dello smarrimento non privo però di qualche barlume di speranza (il clima insomma ansiogeno e pessimista che precede e prepara  l’avvento vero e proprio del nazismo), Il tutto però letto e rappresentato con uno sguardo molto più veritiero e realistico.

 

Nata come reazione proprio all’espressionismo sia nella forma (le lunghe carrellate con la cinepresa a mano che già troviamo molto sviluppate nelle scene di inseguimento di questa  pellicola, la più marcata mobilità della cinepresa e le sequenze concentrate solo sui particolari come quelle degli incontri della donna con i suoi clienti immortalate sullo schermo inquadrando unicamente le loro gambe, sono i fattori più importanti che aiutano lo spettatore a marcare le distanze da quell’altra corrente ormai predominante e che continuava ad andare per la maggiore) che nella sostanza. Questa si concretizza invece a partire dalle scelte prioritarie di privilegiare storie prese direttamente dalla strada che parlano non solo di prostitute, di protettori violenti e di estrema povertà, ma anche di “bravi ragazzi”(si fa per dire)  tentati dal sesso e dalla trasgressione che diventano centrali nella narrazione e rappresentano anche gli elementi fortemente caratterizzanti che permettono di aprire  nuovi squarci di verità su una condizione di indigenza e di disperazione come quella in cui versava la Germania fra le due guerre. Se qualcosa vogliamo imputare a questa corrente è semmai il fatto di essere a volte un po’ troppo  moraleggiante con i cattivi che alla fine vengono puniti anche severamente quasi a voler cercare di esorcizzare  così la tragica cupezza di un futuro ormai prossimo a venire.

 

Questa pellicola, ambientata nel mondo degradato di un paese sconfitto e in preda a una miseria così perniciosa dove anche un semplice tentativo di elevarsi rimane  solo un miraggio irraggiungibile e le ribellioni giovanili si consumano in inutili e sterili tentativi spesso prontamente rintuzzati con  il pronto ritorno alla normalità della propria condizione esistenziale d’origine, contiene dunque  quasi tutti gli elementi identificativi che ho cercato di evidenziare sopra, ed è in ragione di ciò che si può definire a pieno titolo un film “di strada” (secondo la fortunata definizione di Kracauer) o, per meglio dire ancora, che parla della strada e di persone che vivono ai margini di un mondo ormai alla deriva. Un’opera insomma che ha molti punti in comune con le tematiche che emergono da altri film con caratteristiche analoghe (ambientative e di sviluppo del racconto) girati in terra tedesca in quel periodo, con particolare riferimento al tratteggio dei  caratteri  (e anche delle cadute) dei protagonisti maschili che sono poi quelli che originano e scatenano il dramma e la catarsi.

Come è accaduto infatti al pavido borghese di Grüne in Die Strasse del1923 ( //www.filmtv.it/film/49737/die-strasse/recensioni/594662/#rfr:film-49737) e come accadrà poi anche al  poliziotto  Joe May in Asphalt (Asfalto, 1929), anche qui la rivolta velleitaria del filisteo Felix (se vogliamo, il vero, unico  “cattivo” della pellicola) si esaurisce in una meschina avventura a contenuto esclusivamente sessuale e quindi svuotata da ogni pretesa (o ipotesi, termine forse ancora più appropriato)  di quel ribellismo a cui ho accennato prima,  che si conclude infatti (e non poteva essere altrimenti) con un rassegnato ritorno all’ordine e all’ovile.

 

La bravura del regista, grazie anche alla straordinaria prova della sua protagonista (la grande attrice danese Asta Nielsen) e a un’analitica, minuziosa indagine psicologica di tutti i personaggi, sta proprio  nell’essere riuscito a mettere in scena una parabola emblematica della borghesia tedesca di quegli anni spostando però il baricentro da un semplice e un po’ banale dramma della gelosia a una vera e propria tragedia di ben più ampio respiro come quella della vecchiaia e della solitudine. Il tutto, realizzato  con amara acutezza e una invidiabile lucidità descrittiva  che fanno diventare questa storia una specie di specchio nemmeno tanto deformante in cui si rispecchia la società malata e corrotta di quegli anni.

Da parte nostra dunque non può che restare il rammarico per la prematura scomparsa di un regista che nel prosieguo della sua carriera artistica avrebbe potuto regalarci altre opere importanti e (per più di un verso) innovative, come questa. Per comprenderne la portata, basterebbe osservare la delicatezza (e la pudicizia) con cui a messo in scena la conclusione tragica della sua storia (ATTENZIONE SPOILER): il suicidio di una Auguste sicuramente dilaniata dai sensi di colpa ma ancor più devastata dall’essere rimasta davvero sola e senza più speranza  che non  viene mostrato sullo schermo (evitando così un finale a effetto che sarebbe stato fuori luogo)limitandosi a farcelo percepire e rendere palese  attraverso semplici ma significativi dettagli: un giornale che riporta l’annuncio di un suicidio, le colleghe  che commentano amareggiate l’avvenimento (“finiremo tutte così. Questa è la nostra sorte”), la portinaia dello stabile che attacca sul muro il cartello “affittasi stanza ammobiliata”.

 

Il film si definisce così come una tragedia asciutta ed essenziale priva di scene madri e di compiacimenti emotivi (e per questo ancor più dura e sconvolgente). Il regista non calca mai la mano (non ne ha bisogno) e riesce a creare il pathos necessario per creare empatia, puntando esclusivamente sulla recitazione fortemente realistica dei suoi attori: straordinaria soprattutto la prova  fornita da una Nielsen in stato di grazia che riprende e porta a compimento il personaggio della prostituta generosa già da lei magistralmente delineato due anni prima ne La vis senza gioia  di Pabst. Grandissima star del cinema muto di inizio novecento era considerata nel1927 anagraficamente ormai in declino, ed è  forse anche per questo che riesce a essere così veritiera e coinvolgente. Le fa da controcanto l’altrettanto  straordinario Oskar Homolka (Anton) con una recitazione piena di sfumature. Pregevolmente funzionali anche gli attori che interpretano gli altri due protagonisti della storia, Werner Pittschau (Felix) e Hilde Jennings (Clarisse)

Il film è conosciuto anche col titolo Tragödie der Strasse.

 

 

[1] Rahn, regista, produttore e attore tedesco nato a Berlino il 24 novembre del 1987, morirà prematuramente sempre a  Berlino il 15 settembre del 1927, poco dopo la prima del suo ultimo film, Kleinstadtsunder, anch'esso interpretato da Asta Nielsen, inedito in Italia. Il 1927 è lo stesso anno in cui aveva girato anche Tragedia di una prostituta (Dirnentragödie) la sua pellicola più celebre e importante.

 

[2] Georg Wilhelm Pabst  (1885-1967) è stato una delle maggiori personalità espresse dal cinema tedesco ed europeo nella della prima metà del secolo scorso. La sua filmografia è ricca e variegata e  tratta spesso temi sociali e pacifisti.  Fra i più importanti risultati della sua carriera, va annoverata quella che è stata definita “La trilogia della donna perduta” (tre ritratti femminili fra i più affascinanti dell’intera storia del cinema) che è anche la più attinente alle tematiche  trattate da  Rahn in questa pellicola. Il trittico è

 formata da “La via senza gioia” del 1925, anch’esso con protagonista Asta Nielsen e una giovanissima Greta Garbo, “Lulù –il vaso di Pandora” e  “Diario di una donna perduta” entrambi girati nel 1929 con protagonista Louise Brooks che con il suo caschetto nero è entrata nell’immaginario collettivo come donna-icona della sua epoca

.

[3] La Nuova oggettività (in tedesco Neue Sachlichkeit) nata  nel periodo intercorrente fra le due grandi guerre del novecento come reazione  all’espressionismo, ha comunque punti di contatto più o meno marcati  con il realismo (il più affine), il neoclassicismo, il surrealismo  e il dadaismo, ma  – e può sembrare un paradosso – pure con l’espressionismo stesso . Rispetto all’espressionismo,  gli autori che aderirono a questa corrente avevano soltanto una visione più realista (ma il clima era quello e le influenze indotte, inevitabili). Li potremmo definire artisti disillusi che avvertivano la necessità di raccontare la vita con  le sue miserie e le sue meschinità senza alterarla con trucchi o filtri e rendere così palese la sua crudezza anche sullo schermo.  La Nuova oggettività si distingue comunque dal realismo poiché rispetto a quello continua a mantenere  viva una componente emotiva molto accentuata  (tipica della tradizione culturale tedesca) che tende a drammatizzare un poco (anche espressivamente) alcuni momenti “clou” di quella miserabile condizione sociale  che racconta  proprio al fine di generare una forte tensione empatica  nello spettatore.

Detta anche Nuovo realismo, la Nuova oggettività (che potremo considerare assieme all’Espressionismo e il  Kammerspiel, una delle tre correnti principali del cinema tedesco degli anni venti) ebbe però breve vita (terminò con la fine della Repubblica di Weimer e con la presa del potere del nazismo che la considerava “arte degenerata”) . I registi che per questo furono costretti ad emigrare all’estero (per lo più negli Stati Uniti d’America) ne portarono però con sé forti tracce che contribuirono a mantenerne viva l’anima dando vita a un cinema analogamente problematico e sempre più concentrato sulla rappresentazione reale dei fatti  (ne è un poco debitore anche il “neorealismo” narrativo del  cinema italiano che prese vita e si sviluppò nel secondo dopoguerra).

 

 

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