Regia di Ahmed Imamovic vedi scheda film
In questo film in bianco e nero v’è un solo dettaglio colorato: è lo schermo di un vecchio televisore a tubo catodico, sintonizzato sull’edizione serba del Grande Fratello. Zeyna, quelle immagini, se le mangia con gli occhi. Ed intanto freme, guardando il suo Adnan, quel figlio che, insieme al vecchio Aliya, malato cronico e mutilato di guerra, è rimasto l’unico uomo della sua famiglia. Gli altri sono caduti, quindici anni prima, sotto i colpi dei miliziani cetnici. Di loro non si ancora sa nulla di preciso. Lei e sua sorella Ruveyda sono andate a Srebrenica, a farsi prelevare il sangue per l’esame del DNA. E ancora aspettano che, un giorno o l’altro, l’auto bianca dell’ICMP (International Commission on Missing Persons) passi nel loro villaggio, a recare la conferma ufficiale di ciò che tutti sanno. Si muore due volte, si dice dalle loro parti, la prima quando ti sparano, la seconda quando consegnano le carte ai tuoi parenti. A Belvedere si vive nella speranza che la certezza diventa evidenza documentale, che si possa mettere un punto alla fine della storia, ed una croce bianca nel sovraffollato cimitero di Potocari. In quel paesino venuto su dal nulla, in cui i profughi bosniaci abitano tra muri di mattoni a vista, nessuno si aspetta il ritorno della normalità. Nessuno lo desidera, nessuno lo crede possibile. La memoria non si cancella; però si stanca, nel restare tanto a lungo sospesa, ed ha urgente bisogno di un luogo familiare e sicuro, in cui finalmente trovare riposo. Prima di allora, non ci potrà essere pace. Non per Aliya, che ha perso entrambe le gambe, oltre alla moglie e a un figlio, e che soffre di diabete, eppure continua a bere litri di birra. La sua rabbia malata, arrancante e logora è l’icona diroccata di un’esistenza esausta, che però non vuole arrendersi all’impossibilità di essere diversa, di riportare indietro il tempo, di fare finta che niente sia accaduto. Al dolore non ci si rassegna, e si diventa cattivi con se stessi. Oppure ci si lascia schiacciare dal suo peso sovrumano, facendosi ridurre al silenzio, che è l’ambiente ideale per covare segretamente il rancore, fino a farlo esplodere. Belvedere è una pentola a pressione, nella quale il bollore a volte gorgoglia sommessamente, altre volte, invece, ulula come una tempesta. Ma il punto è che, comunque, lassù, nessuno lo può sentire. Forse anche perché il suo suono si confonde con l’ansimare della fatica quotidiana, dei lavori domestici, della cura personale, delle cose che si rompono o si perdono, dei fatti che succedono e non si capiscono. L’umanità, già rottamata, non per questo riceve sconti dal destino. Niente risulta più facile, anche se si sono subite atrocità inaudite, si è conosciuto un terrore sconfinato, si è vista in faccia la morte. Dal viaggio attraverso l’inferno si rientra senza provare sollievo. Si scopre che, nel frattempo, l’aria di casa ha perso la sua luce. Restano solamente ombre grigie. Ecco perché Adnan fugge: vuole cercare lontano una nuova tavolozza di sogni iridescenti, ora che la sua è stata spalmata di fango. Forse la troverà. O forse andrà incontro alla solita, volgare illusione, che qualcuno spegnerà con un clic.
Questo film ha rappresentato la Bosnia-Erzegovina agli Academy Awards 2012.
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