Regia di Eduardo Mendoza de Echave vedi scheda film
Incarnazione. L’anima divina sceglie la mortalità, e scende sulla terra per affondare il corpo nel peccato. Questo mondo è il luogo di una disperata commistione tra bene e male, di una continua guerra in cui la redenzione è il premio eternamente sfuggente. La salvezza ci guarda da lontano, mentre il nostro personale orizzonte si restringe: la persona amata muore, un amico ci tradisce, le nostre cattive azioni si ritorcono spietatamente su di noi. Il perdono non è che una convenzione liturgica, un’assoluzione pastorale, che non trova riscontro nella vita reale. I personaggi di questa storia non possono uscire da una spirale perversa che si stringe sempre più, contro la loro volontà, seguendo lo stesso ritmo incalzante dei loro desideri: poter guarire, essere liberi, avere giustizia. L’amore, la bontà, l’onestà si incamminano lungo sentieri tortuosi, nei quali nulla è facile, tutto è poco chiaro. Si può essere generosi, nutrendo sentimenti sbagliati. Ci si può sacrificare in una maniera che sembra condurre dritta all’inferno. La fede è un’ipotesi di lavoro che non regge il confronto con i guai dell’esistenza. Solo la religione – nella parte in cui è intrisa di spirito corporativistico e superstizione – pare mantenere, sulle coscienze, un potere magico, che pure non ha nulla di autenticamente miracoloso. Una scena sacra, tatuata su una schiena, può bastare a fare cambiare idea ad un assassino. Non è ravvedimento, è solo paura. Gli stessi potenziali eroi sono animati dalla rabbia e dalla tristezza. Sono combattivi come un ultrà offeso, o come un poliziotto finito in un brutto giro. Nascono come vittime, e finiscono come tali, in conseguenza dei loro errori, anche senza un vero motivo. Il caso amministra la vendetta, colpendo indifferentemente colpevoli e innocenti, chi ama e chi odia. Non c’è modo di capire, e allora non resta che cercare di pregare, o di provare a fare i furbi. Ci si consegna al caos, turbati per la propria impotenza, storditi dalla sfortuna. Questa giostra della malasorte dà il capogiro, perché, per quanto maledetta, è fittamente intessuta di emozioni forti, profonde, di quelle che spaccano il cuore. Per il cristianesimo, la fisicità è materia sanguinante, straziata dal dolore che trasforma, che preannuncia la verità come una promessa di luce: un’utopia che, in mezzo a noi, assume la forma concreta di un feticcio colorato, un festone dorato da portare in processione, che costa tanti soldi, e dunque va esibito come un trofeo. È il traguardo di un affanno scomposto le cui movenze sgraziate si mescolano ai capricci del destino. Il film di Eduardo Mendoza de Echave aggira acrobaticamente il dovere di fornire una morale, di sostenere una tesi. Non vi sono regole, se non quella che istruisce gli eventi a rincorrere la perdizione, la mancanza di un senso finale, il rifiuto di qualsivoglia rivelazione. Ricompense e punizioni sono concetti che serpeggiano, nel labirinto degli eventi, senza produrre un disegno coerente. Inutile cercare di scorgere confini inesistenti, dentro quel calderone in cui siamo tutti noi. Confusi perché limitati. Insicuri perché costituzionalmente deboli, incapaci di guardare oltre.
El Evangelio de la carne ha concorso, per il Perù, al Premio Oscar 2015 per il miglior film straniero.
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