Regia di Neill Blomkamp vedi scheda film
La filmografia di Blomkamp è innegabilmente coerente, sia tematicamente che stilisticamente, legata ad una visione pessimistica dell’ordine sociale, con discriminazioni di razza e di ceto che si fanno eco dell’apartheid della sua terra di origine, con un destino economico ed ecologico infausto del pianeta, piagato da siccità e dalla mancanza di materie prime, da elevati tassi di criminalità che portano ad una repressione violenta delle forze dell’ordine, garanti di un iniquo status quo. Il mondo è diviso settorialmente, in zone che non sono soltanto fisiche, e ogni tentativo di travalicamento di quelle frontiere scaturisce nella tragedia e nel rifiuto. La coerenza di Blomkamp risiede anche nel riutilizzo del proprio materiale preesistente, tanto che sia District 9 che Humandroid derivano da corti realizzati in precedenza (rispettivamente: Alive in Joburg e Tetra Vaal, a cui si può anche aggiungere per la tematica robotica Adicolor Yellow) il cui assunto viene dilatato e sviluppato in forma lunga. Rimane fuori da questa filiazione personale Elysium, forse il film più internamente coerente e riuscito del regista, in cui la discriminazione socilae ed economica lascia la morente Terra ai diseredati, mentre le élite si rifugiano su una paradisiaca stazione orbitante priva di malattia e di dolore. Humandroid risente però anche di influenze esterne, soprattutto di Robocop per il plot in cui ai poliziotti umani, inermi di fronte al prevalere della dilagante criminalità urbana, viene affiancato un esercito di robot. Benché qui le macchine siano interamente meccaniche e non cyborg deprivati di umanità, agli androidi si affianca un robot corazzato del tutto simile a quello sviluppato ne primo Robocop di Verhoeven e gli interessi economici della compagnia che li fabbrica sono altrettanto ben in evidenza. Un certo sarcasmo accumuna Blomkamp e il regista olandese (di cui è invece del tutto alieno il recente reboot di José Padilha), benché il sudafricano si lasci trascinare da un certo sentimentalismo che l’europeo raggela nel rigore nichilista. Così i suoi criminali si distinguono in selvaggi capibranco e bande anarchiche, costrette alla delinquenza dalle circostanze più che dall’empietà, atteggiate da gangster ben prima che efferati assassini e sottoposte ad una rozza legge del taglione dai più insensibili e forti. Nella ricerca di uno sviluppo dell’intelligenza artificiale e con la trasmigrazione della personalità dall’uomo alla macchina, Blomkamp si avvicina a tematiche cyberpunk e rievoca la sofferta lotta per la sopravvivenza del replicanti di Blade Runner, così come la riduzione di uno uomo ad un chip sviluppata serialmente da Joss Whedon in Dollhouse. E anche nella scelta degli attori Blomkamp indica una precisa derivazione del suo cinema, citando Alien attraverso la presenza di Sigourney Weaver (candidandosi anche alla realizzazione di un quarto sequel con l’appoggio dell’attrice) e di Jackman, già aduso all’uso dei robot in Real Steel. Ma i loro personaggi si limitano da unidimensionalità (gli interessi della compagnia; la volontà di affermazione del proprio robot telecomandato) che non ne prevede lo sviluppo, pedine di una storia che risiede altrove, nella nascita di un’intelligenza artificiale impiantata nel corpo deciduo di un robot difettoso, un hard-disk senziente costretto ad imparare a vivere nelle peggiori condizioni umane. A contatto con criminali maldestri e violenze gratuite, Chappie, il post-robot, capisce i sentimenti e sviluppa con eccessiva rapidità capacità cibernetiche che gli permettono di sopravvivere e, infine, reincarnarsi assurgendo ad emblema di un’umanità migliorata, quasi mondata dai peccati di un corpo di carne e sangue. Ed è proprio in questa volontà evolutiva post-umana, del tutto improbabile per la sua rapidità di elaborazione e realizzazione, che il film fallisce innestando un elemento poco plausibile in un contesto che è volutamente iperrealistico, anche a dispetto dell’ambientazione distopica. Come già per l’antefatto dei suoi film precedenti, Blomkamp utilizza filmati televisivi e ricostruzioni video giornalistiche create ad-hoc, gira con fotografia e riprese che mimano la verità, per sporcizia e rifiuto di ogni stilizzazione costruendo una realtà alternativa con i mezzi della nostra, fotocopiando gli stilemi della narrazione televisiva per definire la cronaca di un’ucronia accettabile e verosimile. E ogni esagerazione che esuberi dalla coerenza di questa pseudo-quotidianità inedita finisce inesorabilmente per stonare. Inoltre l’inizio stesso di Humandroid (crasi anglofona tra umano e androide scelta della distribuzione italiana al posto del canino Chappie originale), con l’anteposizione di un falso servizio di interviste sulla meraviglia suscitata della nascita di Chappie non solo invalida la suspense della narrazione, ma impone un salto diegetico che il film non convalida nel suo sviluppo, rimanendo un tassello di una storia non raccontata e che la pellicola stessa, nell’andamento della trama, sembra invalidare. Blomkamp pare essersi affezionato a Chappi e ai suoi genitori putativi, gli pseudo criminali sgangherati e gangsta-rap (interpretati dal duo musicale Die Antwoort, con i loro stessi nomi d’arte, Ninja e Yo-Landi, che firmano anche la colonna sonora), così come il giovane tecnico informatico creatore dell’intelligenza artificiale (osteggiata però dalla compagnia perché, giustamente, imprevedibile e poco commerciale) che sembra preso di peso da The Newsroom e potenziato con nuove miracolose competenze. Nello spiraglio di speranza che il film sembra aprire si insinua il dubbio di un sentimentalismo verso il nuovo robot umano e la sua famiglia allargata, che indebolisce l’intero impianto e, in fondo, nega tutto il resto, calpestando situazioni e personaggi per portare a compimento, contro ogni logica, il racconto di una nascita e dei suoi affetti.
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