Regia di Colin Trevorrow vedi scheda film
Concluso il terzo capitolo di “Jurassic Park” il franchise finì in stallo per mancanza di idee e continui avvicendamenti in cabina di regia e in fase di scrittura. Le idee su come dovesse proseguire la serie non erano chiare e comunque il mondo dei dinosauri era sull’orlo dell’estinzione in quanto a profitti. Nel corso degli anni gli incassi erano andati in calando e l’incremento dei costi di produzione fece il resto. Ci vollero perciò 14 anni per venire a capo di un progetto che assunse tutte le forme possibili prima di approdare a quella definitiva. Tra le molte idee che circolarono nell’ambiente una prevedeva di mescolare il DNA umano con quello dei carnivori per dare forma ad un esercito. Raggelante. Decisamente troppo per rimane nel tema degli animali preistorici e nel target dei giovanissimi. Ad ogni modo l’idea di un’arma letale costituita da velociraptor obbedienti e spietati sopravvisse nella stesura definitiva di cui si occupò Colin Trevorrow. Il regista riscrisse la sceneggiatura di Rick Jaffa e Amanda Silver, l’ultima in ordine di tempo messa sul tavolo, e, dopo tanto peregrinare e continui cambi di rotta, produsse il classico topolino. Si ricominciava da capo, vent’anni più tardi. “Jurassic World” sarebbe stato il sequel mascherato da reboot di “Jurassic Park”. Non vi erano più gli storici protagonisti della serie ideata da Michael Crichton ma vi erano Isla Nublar, il parco divertimenti e naturalmente i dinosauri. Tutto era diverso e tutto era uguale al film di Steven Spielberg che le nuove generazioni conoscevano superficialmente e che poteva essere “copiato” per regalare le stesse iperboliche e fruttuose emozioni del 1993 ma con un apparato di effetti speciali molto più evoluto. La lunga assenza dei dinosauri dal grande schermo e la lontananza temporale di “Jurassic Park”, un pezzo di preistoria uscito nei cinema 22 anni prima, permise a Trevorrow di puntare sull’effetto nostalgia, con palesi omaggi all’origine dell’attrazione e un storyline pressoché identica. L’addestratore Owen Grady e la manager Claire Dearing sostituirono il dottor Alan Grant e la dottoressa Ellie Sattler ma sostanzialmente finirono per rispettarne il ruolo, ovvero baby sitter di due ragazzini indisciplinati che a loro volta occupavano il posto dei nipoti di John Hammond. Persino il finale era equivalente nel rispetto del detto “pesce grosso mangia pesce piccolo”.
“Jurassic World” non presenta, dunque, elementi particolarmente originali. Fughe e incontri ravvicinati si ripetono senza fine mentre Grady, a metà strada tra Grant e Malcolm, cerca di farci comprendere quanto la natura sia complessa e non rispetti né le cattive intenzioni dei venditori di armi né le (buone?) intenzioni di scienziati e imprenditori. La regia di Trevorrow è di grana grossa, tutta basata sulla sontuosità della C.G.I. Spielberg, a contrario, sapeva tesaurizzare la stessa tensione che si accumula nella crosta terrestre prima della grande scossa. Gli bastavano pochi artifici come lo sguardo del carnivoro, gli occhi colmi di paura di una bambina, i passi in lontananza del T-Rex e gli anelli concentrici d’acqua formatisi in una pozzanghera. Tanto bastava per fare paura in una notte piovosa.
Il film di Spielberg accumulava una massa di energia straordinaria prima di esplodere in un’eruzione di terrore. “Jurassic World”, invece, si manifesta alla luce del sole e pochi minuti dopo l’inizio della storia lo spettatore è alle prese con la nuova crudele attrazione del parco e con il pericolo dell’assuefazione visiva.
Il film, tuttavia, è attraversato da frequenti scariche di adrenalina, quella prodotta da pasti luculiani, attacchi a sorpresa e inseguimenti incalzanti. Nella sua essenza di “blockbuster” “Jurassic World” è sicuramente un film valido. Compie il suo dovere d’intrattenimento senza nient’altro pretendere che l’apprezzamento della massa. Puntalmente arrivato con uno dei botteghini più felici della storia del cinema.
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