Regia di Antoine d'Agata vedi scheda film
Cos'altro non è ancora stato mostrato? Cosa può essere visto e non visto, qual è la profonda divergenza tra il lecito e l'illecito? E' un problema morale, è un problema filosofico? Cosa spinge d'Agata a penetrare in selve umane contratte da amplessi disperati e mostruosamente vuoti, fino all'annichilimento della stessa immagine, del suo stesso punto di vista? In Aka Ana l'immagine implode e si frammenta, deforma corpi già deformati per conto loro per rielaborarne visivamente la reciproca compenetrazione, fino a diventare parte in causa di un'orgia terrificante e dai contorni metallici e orrorifici, come il vuoto abissale nell'occhio di quello che ad una prima occhiata sembra proprio d'Agata.
Non è questione di "ansia da provocazione", d'Agata si dimentica dello spettatore. L'immagine usufruisce di se stessa come mezzo e fine, quasi come oggetto sessuale fallico ma tagliente, specie nella seconda parte di quest'esilissima ma tediosa ora di pellicola. Se l'inizio già permette di cogliere il senso generale della posizione di d'Agata rispetto alla "realtà distrutta" che osserva (uno sguardo che si mette in gioco coraggiosamente, ma fino ad un'"improduttiva" esasperazione), procedendo oltre non si colgono altro che immagini trite e tonitruanti, insieme a frasi fuoricampo che si producono in brevi pessimistiche sentenze e odiosissimi piagnistei lamentosi. Mentre lo sguardo perlustra, le parole risuonano meno distanti di quanto vorrebbero, e "illustrano" la straripante disperazione che corrode questi corpi scricchiolanti e arrugginiti: le storie che raccontano queste prostitute giapponesi si ripetono e si ripercuotono di fronte agli occhi dello spettatore senza che la visione si distacchi da quella pornografia masochista che (si) nega il piacere e spera trepidante nel buio. Con la conseguenza indesiderata che l'occhio si fa avvezzo alla oscenità più trucida e niente funziona davvero come vorrebbe: lo sconvolgimento rimane a metà, l'immagine si chiude dentro se stessa. Forse in questo senso funziona, autodistruggendosi, ma certa invadenza dell'immagine (primi piani, umori, odori, gemiti) non sconvolge, non scuote, non evoca né qualcosa né il tanto ambito vuoto dell'anima.
La ricerca di d'Agata si esplicita (anche fin troppo) a partire da alcune frasi pronunciate fuori campo: frasi come "guardarmi scopare mi dà la certezza di esistere" oppure "la bellezza sulla terra è stata piagata dall'incarnazione e dal desiderio" sono conclusioni definitive grossolanamente architettate su misura per stampare facilmente un percorso tematico che giustifichi le pretestuose citazioni da Bacon e in generale dalle altre arti figurative, nella creazione di questo ibrido stancante e stanco, lui stesso poco convinto.
La mancanza di una vera impronta potrebbe essere giustificata dal nichilismo animalesco che d'Agata rincorre disperato come i suoi personaggi, ma quando un film che aspira ad essere anche abbastanza allucinante diventa noioso, mai shockante e scontato, mai sanamente provocatorio, allora puoi far vedere da vicino tutte le penetrazioni che vuoi, puoi rimanermi in quel letto sudicio a immischiarti fra i liquidi organici, ma non mi trasmetterai nessuna angoscia, proprio perché può essere artisticamente più coinvolgente il "distacco" (vedasi Atlas e le sue notevoli conclusioni). Il finale, poi ("ogni giorno io muoio"), è il vittimismo per eccellenza: si finisce nel buio, nessuna speranza. Più che altro, nei conclamati caos visivi che offre Aka Ana non ci si perde, né si rimane "produttivamente" distanti: si avverte solo il gelo di un'operazione futile.
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