Regia di Matteo Calore, Gustav Hofer vedi scheda film
Assomigliano a container, i CIE (Centri di identificazione ed espulsione), scatoloni prefabbricati, abbandonati nella periferia altrettanto anonima delle grandi città italiane, stipati di persone che hanno viaggiato sulle stesse rotte delle merci, ma hanno ricevuto una diversa accoglienza. Non serve compiere un reato, per essere imprigionati in quella che, a tutti gli effetti, è una prigione. È sufficiente non possedere il permesso di soggiorno (o averlo perso, magari dopo anni di residenza in Italia, insieme al posto di lavoro) per rischiare il rimpatrio immediato, e, prima, trascorrere un periodo indefinito (dai pochi giorni ai 18 mesi) in questa terra di nessuno, a far passare il tempo e l’angoscia in condizioni di profondo disagio e senza nulla da fare.
Il Limbo del titolo è una doppia dimensione parallela: quella dei reclusi e quella delle famiglie spezzate (mogli, compagne, figli, madri, suocere) che a casa aspettano il cruciale verdetto, o anche solo la possibilità di una telefonata, di un incontro. La produzione ZaLab (partecipata e dal basso, anche a livello distributivo), sotto il coordinamento di Andrea Segre, aggiunge un altro tassello alla mappatura della condizione dei migranti in Italia, si sposta dalle coste del Mediterraneo al resto della penisola e assembla un lavoro di solida denuncia per cui è stato necessario quasi un anno di lavoro. E nella riuscita contrapposizione tra i volti e un paesaggio urbano alieno, indica chiaramente che questo limbo d’ingiustizia ci riguarda tutti.
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