Regia di Camillo Mastrocinque vedi scheda film
Raro caso di film firmato dallo stesso Totò (curiosamente accreditato nel soggetto come Antonio De Curtis e nello script col nome d’arte più due paia di sceneggiatori), Totò all’Inferno è un film mancato. Mancato in virtù dell’esplicito impegno dell’attore (anche se un film con Totò è comunque un film di Totò), intenzionato a creare un prodotto artistico e commerciale al contempo per riscattare una carriera cinematografica quasi ventennale piena di operine così così.
In realtà il genere in cui Totò meglio si esprimeva e si valorizzava era proprio la farsa, dove non serve essere misurati e l’eccesso favorisce una risata genuina. Indubbiamente gli inserti neorealistici con Steno e Monicelli e le partecipazioni con Eduardo e Rossellini ne hanno esaltato il lato più malinconico e tragico, ma ad oggi certe farse a cavallo tra i quaranta e i cinquanta risultano classici senza tempo.
Con Totò all’Inferno, il principe desiderava probabilmente un riconoscimento internazionale che lo accostasse ai grandi comici del suo tempo. Non è un caso che il film inizi senza parole, terreno d’elezione del comico puro: in questi otto minuti, Totò dà il meglio di sé, lavora assai sul corpo, sulla gestualità, sulla comicità assoluta che non ha bisogno di traduzione nel contesto cromatico di un bianco e nero quasi a colori (virato a blu) di suggestivo fascino.
Poi comincia il film concepito da Totò come una riedizione comica della Commedia dantesca, con i gironi abitati da personaggi storici e diavoli in libertà. Tra scenografie di cartapesta (forse un po’ troppo) e fiamme sparse, Totò torna in un Inferno immaginario già frequentato in 47 morto che parla. Ma ciò che funzionava lì nell’efficacia (complice la presenza di un testo dietro che lo portava nei binari della commedia), non ingrana qui per mancanza di fluidità e ritmo narrativo.
Tutto sommato è un film a sketch in cui il povero suicida Antonio Marchi (reincarnazione di Marcantonio) racconta i motivi che l’hanno spinto a togliersi la vita: gli episodi in bianco e nero, che si alternano all’Inferno in Ferraniacolor (la vera forza del film sta in questa idea: il mondo è in b/n, finzione pura, cinema assoluto; l’Inferno è a colori perché progressismo inevitabile ma privo di fascino), non vanno al di là della barzelletta, quasi come nelle rappresentazioni d’avanspettacolo in cui Totò primeggiava.
Il film mancato sta tutto qui, nella poco felice sintesi tra ambizioni di farsa dantesca e suggestioni funamboliche, tra volontà surrealistiche di Totò (che sovente si comporta come un cartoon raggiungendo in quei casi risultati altissimi) e insufficienza di coraggio (perché non osare fino in fondo, approfondendo l’esilarante discorso sull’assurdo e sul no sense di Totò, riducendo tutto ad un comodo sogno in ospedale?).
La regia di Mastrocinque (che si firma senza nome) è per la prima volta al servizio di Totò. Non so se fosse il direttore più adeguato, considerando che i vertici della collaborazione tra i due sono tre commedie più brillanti che comiche, in cui il principe diventa personaggio a tutto tondo affrancandosi dalla maschera (a parte Totò, Peppino e… la malafemmina in cui trionfano indimenticabili giochi di parole, pensiamo al sottotesto drammatico di un gran film come La banda degli onesti o alla solidità brillante del marito di Totò, Peppino e i fuorilegge).
Stranissimo caso di film con/di Totò pochissimo passato in televisione (forse per questioni di diritti), questa capatina all’Inferno di Totò ha il sapore delle cose incompiute e dei progetti nati bene e finiti alla buona e testimonia l’assenza di una reale politica cinematografica attorno al personaggio Totò (qui verso la sua ultima stagione di buon raccolto economico), ridotto troppo spesso a gallina dalle uova d’oro da produttori senza scrupoli né lungimiranza artistica.
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