Regia di Mauro Caputo vedi scheda film
Cos’ha in comune Karl Marx con Edmund Husserl? Il musicista Mendelssohn con Emeric Pressburger, reinventore di forme di cinema? E il Kevin Macdonald di La morte sospesa con l’Heinrich Heine sommo poeta odiato da Karl Kraus? Un nome: Giorgio Pressburger. Un parente, in cui sfocia un albero genealogico in cui si ramifica la Storia, dal Novecento sino ai giorni nostri, come in un’Arca che da russa si fa ebraica, personale, come in un film museo degli spettri, che è anche diario dei ricordi, tragico e onorevole album di famiglia. Ungherese e italiano, scrittore e regista, raffinato intellettuale e pervicace studioso, in L’orologio di Monaco (da un suo libro) Pressburger ripercorre le vie di una storia familiare che segna incredibilmente la storia con maiuscola, discorrendo arguto - tramite la voce del passato, i fantasmi dell’Olocausto, aneddoti e stralci di pensieri suoi e dei suoi antenati - di filosofia dell’esistere, di quel che è e può l’uomo, mentre Caputo associa le sue parole a luoghi in cui s’è sedimentata la Storia. Alla fine cita Giambattista Vico: «Tutte le epoche torneranno, tutti gli uomini si rinchiuderanno ciascuno nelle sue solitudini, come era agli inizi». E allora le sue ricerche, il suo scritto, questo film, si fanno baluardo in cerca di un legame contro questa solitudine, un nesso tra il presente e il passato, tra un me e un noi. Come in una nobile, educata, serena resistenza.
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