Regia di Thomas McCarthy vedi scheda film
Il film del regista Tom McCarthy si presenta al pubblico vantando ben 6 candidature agli Oscar con l’Accademy che finisce per premiarlo con due Oscar molto importanti come quello per il Miglior Film e la Miglior sceneggiatura originale mostrandosi niente affatto indifferente alla storia (vera) del gruppo di giornalisti investigativi del Boston Globe, nominata Spotlight, che in una serie articoli a partire dal 2002 ha svelato al mondo intero le coperture ad opera delle più alte sfere della Chiesa Cattolica di Boston di innumerevoli abusi sessuali su minori commessi da oltre 80 sacerdoti locali in un’inchiesta di enorme clamore mediatico (e che venne premiata anche con il premio Pulitzer) e il cui esito ha cambiato, forse per sempre, i rapporti tra la Chiesa e la società civile in molti paese occidentali.
Opera politicamente corretta che tratta diligentemente (e pedantemente) un’importante indagine su un caso di cronaca con risvolti estremamente sensibili e delicati come la pedofilia nella Chiesa, Il Caso Spotlight deve però essere valutato per la sua qualità in quanto opera esclusivamente cinematografica e che esula, quindi, dalla sua rilevanza tematica, per non ridurlo all’equivalente di un articolo di cronaca che non è l’obiettivo principale di una pellicola, ed è proprio su questo versante che il film dimostra la sua natura convenzionale e le sue debolezze.
Pellicola di stampo tradizionale e che possiede l’ardore civile del cinema classico americano, traendo ispirazione da capisaldi del genere come Tutti gli uomini del presidente o dai più recenti Erin Brockovich e A Civil Action, Il caso Spotlight usa un linguaggio convenzionale per creare, seppur trattando temi tragici, un intrattenimento intelligente grazie soprattutto a una sceneggiatura scritta benissimo che rielabora un evento di cronaca trasformandolo in un prodotto avvincente, ben girato (ma anche manieristico e non particolarmente ispirato) e con una regia che si mette completamente a disposizione dei suoi interpreti, nascondendo la MDP e lasciando campo libero alla recitazione, incisiva e asciutto, del suo gruppo di attori ma anche manicheo nel suo piano concettuale come semplificatorio nel suo impianto narrativo, privo di vere sfumature e da cui emerge soprattutto una concezione molto Made in USA di come un gruppo di persone, se ben motivate e disposte a tutto, possono raggiungere qualsiasi risultato anche confrontandosi con istituzioni eccezionalmente potenti come in questo caso la Chiesa Cattolica.
Una pellicola del genere non poteva però funzionare senza un affiatato gruppo di attori capitanati da un bravissimo Michael Keaton e dall’altrettanto ottimo Mark Ruffalo e, a seguire, da Rachel McAdams, Brian D’Arcy James, John Slattery, Liev Schreiber, Billy Crudup, Jamey Sheridan e Stanley Tucci.
Tutti a modo loro protagonisti ma che hanno però il difetto, per quanto ben caratterizzati, di risultare alla fine abbastanza estranei allo spettatore in quanto il film si concentra soprattutto sulla fredda cronaca degli avvenimenti, senza focalizzarsi sulle loro vite e impedendoci quindi di empatizzare davvero con loro.
Ma un altro aspetto che traspare dalla pellicola, per quanto trattato di sfuggita o in secondo piano, e ben poco sottolineato anche nelle recensioni dei giornali, è anche la presenza di una certa critica al giornalismo stesso che non sempre (un eufemismo) decide di fare la cosa giusta.
“E noi giornalisti cosa abbiamo fatto mentre tutto questo succedeva?” è la domanda che Robinson (Michael Keaton) si pone alla fine di tutto e nel quale traspare la vergogna e la colpa di non aver compreso subito e di non aver quindi gito prima.
E non soltanto come giornalisti ma anche e soprattutto come cittadini o (anche) uomini di fede o semplicemente come esseri umani.
Ed è questa la domanda chiave (in parte nascosta) del film.
Avevano gli arresti, per quanto non direttamente collegati, ma anche le denunce, la documentazione e i testimoni forniti loro dalle Associazioni e/o direttamente dalle stesse vittime (“Vi ho fornito le carte già cinque anni fa. E’ tutto lì dentro. Perché non avete fatto niente?” è l’accusa di Phil Saviano) ma hanno sorvolato, colpevolmente, sulla questione.
Non se ne sono accorti prima (o non se ne sono preoccupati) perché, in realtà, anche loro facevano parte di quello stesso sistema (insieme a polizia, avvocati, istituzioni ecc,) contribuendo anche loro, con un certo lassismo, affinché tutto continuasse come niente fosse.
Più che il bisogno di verità e giustizia è stato soprattutto la necessità di non perdere il lavoro e di trovare quindi nuovi lettori per il quotidiano, minacciato dall’esplosione di internet e dal successo del giornalismo in rete, a spingere il nuovo direttore a cercare uno scoop importante, un evento mediatico e di enorme portata capace di risollevare le sorti del Boston Globe.
Questo ovviamente il film non lo dice in modo così esplicito ma è comunque quello che traspare da certe situazioni, seppur non vengano troppo enfatizzate in questo senso, e per quanto niente tolga all’importanza dell’inchiesta o alle responsabilità di quanto è successo all’interno della Chiesa e da chi colpevolmente si è adoperato dell’insabbiamento di tali misfatti, il film può essere considerato anche come un monito riguardo al fatto che non sempre i giornali operino per il bene comune e di quanto sia invece fondamentale proprio la nostre attenzione e il nostro agire, anche nel confronto dei giornalisti perché compiano il loro lavoro, perché certe cose vengano alla luce e i responsabili puniti per le loro azioni.
Perché più ancora del giornalismo siamo in realtà noi i primi guardiani di noi stessi e del nostro mondo. Non loro.
VOTO: 6,5
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