Regia di Thomas McCarthy vedi scheda film
Implacabile.
Come acqua (santa?) che scava rocce e lava peccati: fenomeno noto e inesorabile, di sicuro effetto e garantita riconoscibilità.
Le vie del cinema civile americano sono infinite; eppure sempre uguali a sé stesse, quando ricalcano apertamente modelli nobili di forte impatto e richiamo ancor oggi.
Di fatto, Spotlight, non cerca (mai) una sua via, né innovazione alcuna: linguaggio, scrittura, messa in scena, rappresentazione, "tempra morale" sono quanto di più canonico possibile nel solco della grande tradizione popolare a stelle e strisce.
Lasciando che siano il "caso" e il "tema" - di una vastità siderale per proporzioni e implicazioni - a far(si) opera di educazione/divulgazione e grammatica/struttura filmica.
Sta tutto lì - nella scoperta della luridissima faccenda, nell'ancor più fetida copertura per mano delle alte sfere, nelle impensabili dimensioni della questione, nell'immancabile sistema di connivenze insite nel sistema - l'impianto formale e sostanziale di Spotlight, e all'utilizzo di noti codici e dispositivi e sguardi che ne compongono la redazione, installazione, tiratura.
«È come se tutti conoscessero già la storia» dice uno dei personaggi; ed infatti è così: tutti la conosciamo così come conosciamo dove esattamente il film (ci) porterà (dall'inizio alla fine).
Musiche al piano dai toni intimisti-struggenti, atmosfere classiche delle grandi occasioni, tenuta efficiente, prestazioni attoriali efficaci e in odor d'investitura ufficiale (Ruffalo una spanna su tutti), psicologie neutrali e composite (sempre tutto già visto: l'incazzato, il prudente, la volitiva, il saggio, quello che tiene famiglia, l'ambiguo minaccioso, il tormentato, e così via), regia buona e cauta dedita alla causa.
E lo script, di ferro: solidissimo anche nel non osare né azzardare (mai) (tralasciati, e appena accennati, sia l'eventuale coinvolgimento delle più alte autorità ecclesiastiche sia le responsabilità degli stessi organi di informazione che anni prima avevano sottovalutato - se non addirittura insabbiato - la vicenda), abile nel farsi portatore sano dei migliori valori del cinema impegnato, perfetto nello scandire coordinate, schema d'intenti ed espressioni dal forte carico simbolico («Vuoi fare causa alla Chiesa cattolica?» ripetono più volte al neodirettore ebreo del Globe).
E chirurgico così nel disvelamento delle oscene verità, dello "schema" a copertura delle ignobili azioni dei preti predatori (ma più della sua entità, tanto da poter definire il fenomeno «di rilevanza psichiatrica»); d'innegabile potenza, valenza, enfasi le parole dell'avvocato in lotta contro i mulini a vento della potentissima istituzione religiosa: «se serve una comunità per crescere un bambino, serve una comunità per abusarne».
Sullo sfondo - relegato perlopiù a sfere familiari o amicali di breve, strumentale misura - la "cattolicità" della città-società e dei suoi abitanti (nonché dei lettori del quotidiano stesso): avrebbe meritato maggior approfondimento.
Rimane, senz'altro, la riflessione sullo stato e sull'importanza (capitale) del giornalismo d'inchiesta (sebbene con riverenza quasi agiografica, eppure è uno sporco lavoro, pieno di zone d'ombra): roba oggi sempre più rara, nascosta, difficile, sacrificata sull'altare della (cattiva) informazione intrappolata in un eterno presente e a rapidissimo consumo di sua santità il web.
Quanto ne abbiamo bisogno.
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