Regia di Maccio Capatonda vedi scheda film
Il titolo si direbbe fatto apposta per far passare il film inosservato, per affondarlo, in partenza, nel mare magnum delle commediole qualunquiste di casa nostra. L’articolo di Wikipedia sembra invece volerlo innalzare alla dignità delle migliori opere d’autore, mettendone in luce le numerose nobili fonti d’ispirazione e le relative citazioni (si parla di Arancia meccanica e Fight Club). Maccio Capatonda, in effetti, dà un colpo al cerchio ed uno alla botte, ponendo la sua comicità caricaturale e trash al servizio di un’idea tanto paradossale quanto indovinata: gli italiani hanno un modo particolarissimo di mescolare vizi privati e pubbliche virtù, incanalando il loro inveterato disimpegno nella corrente del buonismo di origine televisiva. La superficialità delle emozioni e la volgarità dell’istinto, massificandosi, assumono una veste morale, che va oltre la moda, per radicarsi nella società come stile di vita solidale in quanto condiviso, obbediente al diktat di volere ciò che tutti vogliono, perché solo così si lavora per la causa comune. Non importa quale sia l’obiettivo da sostenere: se impedire la cementificazione di un’area verde oppure far riammettere un concorrente ingiustamente escluso da un reality. È tutto giusto ciò che piace, ossia ciò che sono in tanti a definire bello. Il quarantenne Giulio Verme, che pure, fin dall’infanzia, ha cercato strenuamente di resistere a tanto appiattimento, scopre, un giorno, di non poterne più. Una strana combinazione chimica lo induce a cedere agli impulsi, a lasciarsi andare, a smettere di pensare e a uniformarsi al resto dell’umanità. Solo ogni tanto torna in sé, scoprendo con infinito sgomento quanto sia caduto in basso. L’abusato tema dello sdoppiamento della personalità non potrebbe essere utilizzato in maniera più calzante e provocatoria: il nostro mondo interiore ha di fatto perso la sua battaglia epocale tra la civiltà e la barbarie, per ritrovarsi inerme, squallidamente diviso tra una ragione atrofizzata ed una fantasia che agisce a comando. Noi forse ci sentiamo davvero noi stessi quando, per una necessità fisiologica, ci trasformiamo in quello che abitualmente guardiamo; il critico distacco è un lusso trascendentale che si possono permettere solo pochi, emarginati utopisti. Ai due estremi si collocano dunque due opposte follie, ugualmente lontane dalla realtà: un edonismo d’accatto che gode del generale sbracamento, ed una sdegnosa astinenza che si risolve in uno sterile e pretestuoso isolamento. Questo ascetismo spinto si rivela un’inutile perversione, un integralismo che impone ottusamente dei limiti nei confronti di un mondo già abbondantemente limitato, e si ritrova quindi confinato nel forzato immobilismo di chi nulla stringe. Giulio Verme naviga in mezzo a un mare in tempesta in cui gli approdi sono insulse isolette deserte. Il resto è un oceano gonfiato di paroloni, illuminato dai riflettori, infarcito di uno sfavillio di cliché e frasi fatte: una pletora tra lo spettacolare ed il retorico che questo film applica ad ogni aspetto della vita contemporanea, dall’universo mediatico alla politica, dalle vicende sentimentali ai progetti terroristici. La sovrabbondanza è l’espressione rituale di chi, essendo privo di una dimensione dell’essere, fa di tutto per esserci, per trovare riscontro nei gusti vigenti, nelle tendenze più diffuse, premendo sull’acceleratore del tutto e subito: il kamikaze si dà fuoco prima del tempo, gli amanti bruciano le tappe, e l’unico fine sembra essere quello di abbattere il muro della contraddizione. La ballerina obesa si solleva sulle punte, l’intellettuale sposa la coatta, il tranviere si comporta come un pilota d’aereo. Siamo arrivati al punto che la doppia faccia non si nasconde più dietro l’ipocrisia: si rallegra, invece, di potersi esibire, mentre, con funambolica sfrontatezza, si regge in bilico tra gli inconciliabili opposti della sfiga vissuta con grossolana noncuranza e del successo stupidamente convertito, coram populo, in una rumorosa macchina da guerra.
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