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Playing the Victim

Regia di Kirill Serebrennikov vedi scheda film

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La recensione su Playing the Victim

di (spopola) 1726792
6 stelle

Playng  the Victim  nel 2006 vinse a sorpresa il Marc’Aurelio d’oro della prima edizione (indiscutibilmente molto meno famosa e frequentata di quanto non lo sia invece adesso) della Festa del cinema di Roma ancora alla ricerca di una sua specifica  identità  che solo il tempo le ha fatto individuare e perseguire con pieno successo.

Presentato come un vero e proprio outsider senza troppe pretese nell’ultima serata della rassegna e diretto da un regista totalmente sconosciuto (il russo Kirill Serebrennikov qui alla sua seconda prova)si aggiudicò a sorpresa il massimo riconoscimento di quella rassegna ed è importante sottolineare che la sua vittoria fu decretata  direttamente dal pubblico (una giuria di cinefili e comuni spettatori coordinata da Ettore Scola) e quindi non da un gruppo di esperti  “addetti ai lavori” (le  cosiddette giurie qualificate insomma) come invece accade in quasi tutte le altre rassegne festivaliere di cinema.

L’importante riconoscimento vinto ci si immaginava dunque che potesse garantire  al film una visibilità maggiore che altrimenti non avrebbe potuto avere  e una adeguata distribuzione in sala coronata da altrettanto successo. Non è stato però cosi perché poi quando il film entrò nella normale programmazione non se lo filò quasi nessuno e non fu salvato nemmeno dal passaparola. Fu di conseguenza un vero disastro al botteghino dove raccolse solo pochi spiccioli.

Indubbiamente la responsabilità di questa debacle fu da attribuire (almeno in parte)  alla dissennata  scelta distributiva che lo ripropose al pubblico solo un anno dopo  e quindi quando l’eco di quel premio si era ormai notevolmente affievolito.

 

Rileggendo la sua storia a posteriori però, io credo che ci furono ragioni molto più profonde  che ne decretarono l’insuccesso poiché si tratta di un’opera che a mio avviso pone seri interrogativi sulle motivazioni che lo portarono a vincere quel premio (intendiamoci: non è un film da buttare totalmente via) poiché non ha nessuna delle caratteristiche che possono interessare (e attirare in sala) una adeguata quantità di pubblico al di fuori di quello che frequenta i festival e le rassegne in genere poiché si tratta di un’opera che sembra fatto apposta proprio (e solo) per quelle.

Per me dunque  resta addirittura un mistero comprendere  quali furono le ragioni che in un certo senso (e si fa per dire) lo avevano fatto trionfare a Roma soltanto l’anno prima nonostante la presenza in cartellone di titoli molto più quotati  e interessanti (non solo  Il matrimonio di Tuya al quale fu assegnato il Marc’Arelio d’argento ma molti altri tutti più meritevoli di quello).

La riflessione che in me nasce spontanea è quindi  quella che riguarda proprio l’assegnazione  (ribadisco: per me misteriosa) di un premio conferito dal pubblico a una pellicola piuttosto cervellotica nel suo impianto e che di “appeal commerciale” ha poco o niente. Così,  anche se una rondine da sola non fa primavera come certifica il noto adagio, io lo considero un fatto decisamente anomalo che sembra fatto apposta per smontare una buona parte dei luoghi comuni che si tirano in ballo quando si cerca di delegittimare i responsi delle giurie qualificate dei grandi festival  (da Cannes a Venezia fino a Berlino e oltre) che vengono spesso giudicati troppo intellettualizzati e come tali, assegnati a pellicole incapaci di “sfondare” quando presentate nei circuiti normali di visone.

In  genere si è portati a pensare  infatti che “il pubblico”, entità generica e ineffabile (Cristina Paternò), ami cose diverse, più popolari e potabili che non collimano (o lo fanno solo in minima parte) con le preferenze espresse da registi,  critici, attori e  uomini e donne di cultura di vario genere, che compongono le giurie ufficiali poiché  (almeno in questo caso)  questo pregiudizio è stato ampiamente sconfessato.

Probabilmente bisognerebbe chiarire meglio  di quale pubblico si tratta, e a quale ci si intende riferire perché questa, che sarà pure un’eccezione, sta lì a dimostrare che non si può assolutamente fare di ogni erba un fascio (anche se i “distinguo” sono sempre molto complicati).

Playng the Victim è infatti un film così “intellettuale” e “intellettualistico” che più che al pubblico normale, potrebbe aspirare a piacere (direi ancora meglio “soddisfare”) proprio a quelle giurie. E’ in effetti  una pellicola così sperimentale e anomala anche nella sua struttura narrativa, fatta di differenti materiali  e mezzi espressivi  molto disomogenei fra loro che vanno dal fumetto alle riprese in videocamera quasi di stampo documentaristico ed  è attraverso la fusione di questi che il regista impagina il suo racconto in un pour puri un po’ disordinato che presenta  (guarda caso) molti ingredienti  decisamente affini a quei  cosiddetti  polpettoni “artistici” così graditi dalle giurie degli esperti e che vengono poi aspramente criticati da un pubblico che invoca più collegialità e meno supponenza.

 

Entrando comunque nei meriti (o demeriti) di questa pellicola, va detto subito che a conti fatti,  pur nella sua moderna e un po’ caotica ambientazione, in fondo non è altro che una nuova versione aggiornata dell’Amleto Shakespeariano (che come ben sappiamo, è uno dei testi del vate fra i più rappresentati e riletti in varie salse oltre che saccheggiati da sceneggiatori, registi  e interpretati a corto di idee) anche se ufficialmente è derivata da una commedia dei Fratelli Presnyakov che fa a sua volta riferimento a quella tragedia (più nella storia che nel clima generale che è molto più leggero e che presenta – in antitesi al dramma - forti i connotati bizzarri e un po’ farseschi  totalmente assenti nell’’originale). 

Del resto Serebrennikov (classe 1969) è uomo più di teatro che di cinema e lo conferma il fatto che il testo prima di essere trasposto in immagini per lo schermo, è stato preceduto proprio da un suo  allestimento  realizzato per le assi del palcoscenico e credo che il problema di fondo sia proprio questo poiché  nonostante gli  sforzi  fatti per cercare di nascondere nel film questa sua provenienza adottando quel linguaggio pieno di contaminazioni e sperimentalismi visivi a cui ho già accennato prima, il risultato finale  lascia trasparire chiaramente quella che è e rimane l’ impostazione di base del regista.

 

Se vogliamo sintetizzare un poco, il film vorrebbe comunque essere (non so se lo era altrettanto la versione realizzata in teatro)  una specie di opera beffarda (quasi uno sberleffo si potrebbe dire) grottesca e spigolosa sulla Russia contemporanea, sulle sue responsabilità morali, sui suoi tradimenti e le sue alienazioni (ma ci vuole  un po’ di fantasia da parte dello spettatore per individuare e riconoscere fra tanto guazzabuglio questa chiave  di lettura che resta moto nascosta nelle pieghe del racconto).

Si può anche considerare un blando tentativo (riuscito però solo a metà) di provare staccarsi dagli stereotipi che lo spettatore medio ha di quella cinematografia ma il tutto risulta davvero un poco forzato poiché sia l’intrigo privato che la dimensione politica che si intrecciano magistralmente nella tragedia Shakespeariana,  nella storia più terra terra di questo piccolo Amleto senza qualità, risultano entrambe molto meno evidenti   a causa dallo sforzo che ha fatto il regista  per cercare di  ridefinirli a misura del punto di vista di un adolescente svogliato, forse viziato, ribelle sì, ma senza un briciolo di consapevolezza.

Il protagonista è appunto il giovane Valya un anonimo studente universitario dal profilo aguzzo e un berretto perennemente calato sulla testa,  che è stato ingaggiato dalla polizia scientifica per impersonare il ruolo  della vittima, uomo o donna che sia, nelle ricostruzioni dei delitti che vengono compiuti in quella circoscrizione. Una specie di “rappresentazioni visive” di quei fatti insomma, che vengono filmate per  essere poi inserite come prove ufficiali  negli atti processuali.

Ma non ci sono mai nella pellicola uccisioni davvero memorabili, poiché quelle che vengono immortalate dallo sguardo implacabile della telecamera, più che essere efferate , virano spesso verso  il ridicolo (una donna tagliata a pezzi mentre è seduta sul gabinetto a defecare per esempio, o un’altra che cade dalla finestra per un colpo di vento provocato volutamente sbattendo forte una porta, e così via) e questo a partire dai moventi (le cause) che le hanno generate quasi sempre segnati da passioni (e conflitti) tutti privati e minimali (improvvisi scatti d’ira, gelosie, invidie, odio e rancori). Sono insomma in  prevalenza piccole e spesso meschine le  radici (quasi alimentari) di questi delitti, e come tali, a causa della loro banale inconsistenza  non riescono a toccare minimamente il ragazzo né a inquietarlo quando deve interpretare il ruolo della vittima di turno abituato com’è ad attraversare la sua vita in maniera amorfa senza alcun progetto o desiderio.

Per Valya che dopo la morte del padre vive ancora con la madre, questo è solo un lavoro da svolgere con diligenza poiché è quello che gli consente di guadagnarsi da vivere e questo basta. E’ turbato soltanto da un’ossessione, quella  che riguarda la prematura dipartita del genitore già prontamente sostituito nel letto della donna da uno zio che ha fretta di installarsi in pianta stabile in quella casa. Insieme alla sua giovane, eterna fidanzata (l”Ofelia” di turno”) che continua inutilmente a chiedergli un cambio di rotta e delle sicurezze (il matrimonio) che lui non è in grado di darle perché non ha alcuna voglia di crearsi delle complicazioni, Il giovane trascorre dunque  una vita monotona senza sussulti o ambizioni dove latitano persino le emozioni.

Qualcosa però cambia quando una notte il fantasma di suo padre gli appare in sogno per chiedere giustizia e vendetta e dà così corpo e sostanza alle sue ossessioni. Gli racconta infatti che non è morto per un incidente come si supponeva,  ma che ad ucciderlo è stata la moglie fedifraga  che aveva già una relazione adulterina col cognato. La rivelazione, già ampiamente subodorata sconvolge comunque Valya: se prima non aveva mai avuto uno scopo preciso da raggiungere, si è aperto adesso  davanti a lui uno scenario inedito che fa maturare in lui la consapevolezza  di stare vivendo per la prima volta e con partecipazione emotiva,  la ricostruzione di un crimine che lo tocca molto da vicino rappresentata su un palcoscenico reale e non più fittizio. Una mutazione cos’ profonda  che all’improvviso getterà una luce livida sull’intero racconto e  porterà la storia a virare verso un finale inatteso e spiazzante (la parte più interessante e convincente del film(e non aggiungo altro perché non voglio spoilerare).

Un film dunque dalle premesse interessanti ma non del tutto convincente e in alcuni momenti anche sgradevole e indisponente come lo sono tutti i suoi personaggi che sembrano nutrirsi solo di parole e non hanno mai un fremito di umanità o di pietà  chiusi come sono nei loro mondi meschini privi di prospettive e di futuro.

 

Non tutto è da buttare comunque: oltre al finale, ci sono infatti anche altri momenti costruiti abbastanza bene che riescono a regalare qualche piccola emozione allo spettatore  come il feroce monologo del poliziotto all’interno del ristorante giapponese. Possiamo citare al suo attivo anche altri dialoghi azzeccati e divertenti ma purtroppo il film soffre  (e un poco annaspa)  a causa di una regia che, sotto una patina forzatamente moderna, dimostra di essere in fondo abbastanza anonima, prevedibile e non sufficientemente incisiva annacquata da quella contaminazione dei linguaggi un poco artefatta e non sempre necessaria. L'inserimento di sequenze animate può  dunque anche stupire, ma resta comunque  un elemento marginale e in fin dei conti anche superfluo nell'economia della storia, così come l'insistente utilizzo delle sequenze da documentario riprese dalla telecamera della polizia.

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