Regia di Giuliano Montaldo vedi scheda film
All’inizio degli anni ’60, il cinema italiano affronta l’argomento delicato del fascismo utilizzando un approccio che, pur ancora legato a certi schemi neo-realisti, cerca di utilizzare nuovi strumenti di approccio. In realtà, si tratta di un tentativo che presenta un difetto principale e cioè quello didascalico. Il fascismo (e tutti gli annessi e connessi e cioè odio, ferocia, soprusi, perdita della libertà ecc.) viene affrontato senza la libertà ed indipendenza di critica che sarebbero necessarie quando si parla di un argomento storico. Intendo dire che i condizionamenti dell’ideologia impediscono di guardare a una delle stagioni più drammatiche della nostra storia recente con il necessario rigore e la necessaria obiettività. Sappiamo bene, in ambito storiografico, quanto costò a uno storico di grande valore come Renzo De Felice, esercitare il suo lavoro di ricerca, pressato, attaccato e insultato da un’intera classe intellettuale supinamente schierata e di parte. Eppure, anche con questi ostacoli formidabili, è possibile notare qualche lavoro cinematografico di un certo livello. Mi riferisco a TIRO AL PICCIONE di Giuliano Montaldo (1961). E’ il suo primo film e, probabilmente, anche il migliore. E’ la storia di un giovane del Nord che si arruola in un’unità delle forse armate della repubblica di Salò, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Vicende belliche e non, fucilazioni di innocenti, diserzioni, ferocia inutile, porteranno Marco(Jacques Charrier) a prendere coscienza della propria estraneità rispetto a Salò.
L’argomento già di per sé è innovativo. E’ uno dei pochissimi esempi, fino ad allora, di un protagonista militante nella parte avversa. Marco Laudato si arruola nell’esercito dei repubblichini perché fedele, come si evince dalle sue parole e dalla sua condotta, a determinati valori come la Patria, il giuramento a Mussolini, l’onore e il rifiuto delle ideologie borghesi e decadenti. Ben presto si accorge che la popolazione, invece di applaudirli, li teme e li disprezza. Che le azioni della propria unità, invece di combattere gli alleati, si dedica ad azioni di rastrellamento, di rappresaglia e di caccia senza quartiere ai partigiani. Che episodi poi come la fucilazione di Elia (Francisco Rabal) e la diserzione del capitano Mattei Carlo D’Angelo) minano alla base le sue convinzioni ideologiche.
La parte migliore del film è l’aspetto storico: il realismo, la cura del dettaglio, l’ambientazione. Mi sembra anche indovinata la scelta di Jacques Charrier come protagonista. Il suo essere straniero accentua l’immagine della sua sostanziale estraneità a un mondo lacerato fra fazioni irriducibili. Non sembra un italiano quasi, tanto è incerta la sua base ideologica, la sua radice sociale, la sua mancanza di inflessione dialettale (a quel tempo così marcata), la sua provenienza geografica (Dice di essere cremonese, ma nulla traspare di queste sue origini). Questo punto apparentemente debole diventa, stranamente, un punto di forza ideologico. Solo un “alieno” sembra dire il regista, può arruolarsi nell’esercito di Salò: uno venuto dal nulla e di cui non si sa nulla o quasi. Qualsiasi italiano normale non avrebbe esitazioni e sceglierebbe l’altra parte. Il fatto è che Marco è persona educata, corretta, non è un esaltato o un fanatico come il tenente Nardi(Sergio Fantoni) o un volgare soldataccio come Pasquini (Gastone Moschin): si comporta da persona civile e perfino generosa (vedi l’episodio del rapporto con la signora col marito al fronte (Franca Nuti). Una persona così “deve” per forza essere diverso dagli altri e cioè dai fascisti.
E qui comincia l’aspetto meno convincente del film. Se Marco è così, non può essere fascista vero. I fascisti sono dei fanatici come Nardi, villani zoticoni come Pasquini oppure ufficiali felloni e senza ideali come il capitano Mattei. I buoni insomma non possono essere che dalla parte della Resistenza.
La realtà storica invece è, come si sa, ben diversa. Noi scontiamo ancora oggi, a livello politico, sociale e culturale la lacerazione gravissima che si creò dopo l’8 settembre, uno dei periodi più bui ed infausti della nostra storia. Un Paese spaccato fra illusioni e delusioni che troncò vite, speranze, progetti, da ambo le parti. La consapevolezza che la ragione stesse da una parte non può fare dimenticare che dall’altra ci fossero energie, risorse, valori pur se, purtroppo, male indirizzati.
Il personaggio Elia interpretato da Rabal rappresenta appunto questa posizione didascalica. All’inizio Elia è uno dei capetti del battaglione presso cui arriva Marco: bulletto e sicuro di sé, sembra rappresentare il cliché del fascista convinto. La sua evoluzione ideologica e morale lo portano a disertare. Marco, nel frattempo, è diventato suo amico, ma non ne condivide la scelta. Alla fine, quando Elia verrà catturato e poi fucilato, sarà Marco a dargli il colpo di grazia. L’evoluzione di Elia è l’altro aspetto didascalico del film: ci sono fascisti che, pur avendo compiuto la scelta sbagliata e possedendo doti umane importanti, si “convertono” e rinnegano la loro scelta. Pur con la costrizione temporale imposta dal film, la sua conversione è quanto meno frettolosa. Era in effetti doveroso mostrare, perché Marco potesse avere davanti agli occhi un esempio valido, che anche i fascisti non accecati dall’odio, sanno distinguere la parte giusta. La scena finale poi, con il fervorino di chiusura alquanto inutile, è l’estremo pegno pagato dal regista alla “causa”.
Il cammino che il nostro Paese ha dovuto percorrere dal fascismo alla piena libertà è lastricato di belle intenzioni e pegni, doverosi o meno, all’ideologia. Affrancarsi completamente dai suoi lacci è stato un lavoro duro, faticoso e non ancora del tutto compiuto. Essa è sacrosanta nel momento di compiere scelte politiche, lo è un po’ meno quando si tratta di analizzare obiettivamente la realtà e la storia.
Nonostante tutto, questo film è ancora oggi valido e soprattutto può ancora insegnare qualcosa a chi il fascismo non l’ha mai vissuto.
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