Regia di Tala Hadid vedi scheda film
Non esiste casa, esiste solo il mondo. E non esistono città, ma solo strade, pareti squarciate, stanze vuote. La vita è una scena di guerra, un luogo che si può attraversare, senza però avere modo di fermarsi. Keep going. Continuare ad andare è una necessità. Non avere pace è il motore stesso della vita, quel fuoco d’amore che spinge a cercare l’introvabile, a fuggire l’ineludibile. Zacaria va a caccia del fantasma del fratello. La piccola Aisha corre via quando sa di non avere scampo. La disperazione è così devastante da negare se stessa, ribellandosi alla propria tristezza, sfidando persino l’ignoto L’universo degli esuli, degli esseri solitari è popolato di stranieri. Per loro non ci sono volti familiari, né presenze amiche. Il deserto delle loro esistenze si riempie, a tratti, di masse anonime e mute: cadaveri allineati su un pavimento, donne in chador che affollano una piazza, bambini che giocano a moscacieca in un prato. Sono le onde dell’oceano battuto dal vento, un gigante privo di moto proprio, sterminato, uniforme e senza identità. Per chi non ha nessuno, tutti sono uguali, parimenti sconosciuti e distanti. I loro legami durano un attimo, sono finzioni passeggere, come quella di un padre che non è mai stato tale, o di un’amante che non lo è più. Il,film di Tala Hadid, ambientato in quella fascia di terra spietatamente assolata che si estende dal Marocco alla Turchia, propone il deserto come una condizione dell’anima, in cui la luce porge l’accecante evidenza di una realtà immodificabile ed estranea, e la sabbia asciuga il pianto flagellando il viso. Una bambina orfana è venduta a trafficanti senza scrupoli. Un uomo ramingo insegue i sogni di un’infanzia irrimediabilmente perduta. Il tempo, eternamente immobile, non consente la crescita, che è per sempre bloccata, impedita da quell’azzeramento delle emozioni che è la gelida carezza prodotta dal dolore. Il niente diviene così l’unico fedele compagno di viaggio, mentre alla mente non resta che immaginare di essere già arrivata: nel regno delle fate evocato da una giostra di cartone, o nel passato gioioso rimasto impresso in una fotografia sbiadita. Il racconto è il bollettino di una marcia, le cui tappe sono scandite dalle pause in cui ci si guarda intorno senza alcuna prospettiva, giusto per riprendere fiato. Il paesaggio è, ovunque, una semplice cornice che inscatola idee fuori luogo, giunte troppo tardi, o non adatte alla situazione. Come credere che da una battaglia ingiusta si possa uscire vivi. O come pensare che essere invisibili basti per essere al sicuro. L’essere umano è privo di protezione; è nudo, soprattutto quando è l’unico a vestire i panni obsoleti di quello che, di lì a poco, probabilmente non sarà più: una creatura innocente, un cuore che ama ed è amato. La diversità è la caratteristica che contrassegna il limite dell’ordinario, che si colloca sulla linea immaginaria tra l’apparenza mancata e il desiderio di cambiare. Zacaria e Aisha provano a muoversi, su quel filo sottile, non smettendo di aspirare alla libertà derivante dalla certezza di non poter cadere, o di essere definitivamente caduti. Di avere ancora qualcosa davanti a sé, o di avere toccato il fondo. La storia asseconda la prudenza con cui i due protagonisti tastano il suolo intorno a sé, alla ricerca di appigli alla speranza, alla fantasia, o anche solo alla rabbiosa consapevolezza di avere perso qualcosa di importante. Il transito non consente di mettere bene a fuoco: è una distrazione che dissolve l’unità del quadro, fa volare via la sua limpidezza. L’occhio riesce a posarsi, per un solo istante, su una bellezza generosa ed imponente, ma che non sa parlare, o che non ci vede, o che non capisce. Un’anziana madre stesa in un letto. Un altissimo ponte sospeso, una nave da crociera, la vista panoramica di una vallata. L’immensa spianata di fronte a una moschea. Tutto desolatamente grande, tanto da poter ospitare anche l’orrore: una malattia, la tortura, uno sterminio, Un abbandono, un atto di indifferenza. Uno spazio pieno della voglia matta di renderlo accogliente, personale, reale. Una casetta disegnata sul muro. Uno stanzino traboccante di libri. Un pranzo conviviale in un edificio fatiscente. Un senso finale affidato al destino, ma definito sin dal principio, sottinteso dall’utilità – comunque vada – di proseguire il cammino.
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