Regia di Masahiro Shinoda vedi scheda film
Nel costruire l’allegoria Shinoda lavora con magistrale controllo della misura sul crinale sottilissimo che separa la realtà dall’invenzione, l’amalgama è denso di risonanze in profondità e leggero nella sottilissima trama di superficie.
Isola della punizione, Shokei no shima.
Non é un bisogno di vendetta quello che muove Saburo, il piccolo Sabo di vent’anni prima, mentre torna in quella terra inospitale circondata dal mare in cerca di Otake.
Sarebbe un intento comprensibile ma circoscritto alla sua storia personale, e dunque privo della forza catartica del gesto tragico. E’ giustizia, e come sempre può avere tempi lunghi.
Un crimine efferato é stato compiuto, i suoi genitori e il fratellino furono barbaramente uccisi in tempo di guerra per le idee anarchiche del padre.
Li uccise nella loro casa Otake, un criminale di guerra che coltivò la sua sete di violenza anche in tempo di pace esercitando un potere assoluto sulla comunità di ragazzi chiusi nel riformatorio dell’isola e ridotti in schiavitù nel suo allevamento di mucche.
Il sadico torturatore, ferito in combattimento e reso zoppo, si aggirava in divisa per l’isola amministrando la disciplina a suon di bastonate con le sue stampelle.
Sabo, rimasto orfano, fu la vittima preferita della sua barbara follia e nessuno avrebbe mai creduto salvo il ragazzo dopo il tremendo volo che l’aguzzino gli fece fare giù dal dirupo in mare.
Il plastico fermo-immagine dell’uomo con la sua vittima tenuta alta sul capo, un campo lungo in controluce sull’orlo del precipizio, quindi il lentissimo precipitare del corpo in acqua : é l’immagine/cifra del film, riappare come un incubo, espande larghe onde di pietà e orrore, oltre le barriere del tempo reclama giustizia.
Sulle circostanze della sopravvivenza di Sabo in quella massa d’acqua gonfia e mugghiante, magnificamente ripresa dalla superba fotografiadi Tatsuo Suzuki, il mistero resterà tale fino alla rivelazione finale.
Shinoda sfronda la narrazione fino al limite estremo, lascia sulla scena solo il giovane eroe diegetico con il suo proposito, nulla che storni l’attenzione da quell’obiettivo.
La lenta progressione per ellissi della vicenda, il suo inesorabile avvolgersi a spirale intorno a protagonista e antagonista, la tensione crescente e il suo placarsi improvviso al culmine della salita tortuosa, schivano abilmente le strade consuete del racconto post-bellico.
Fotografia, montaggio, frantumate sonorità in presa diretta, presenza scenica di figure avvolte nel mistero del loro passato, tutto diventa luogo di autentica invenzione.
Nel suo sviluppo breve, 87 minuti, con la rarefazione del procedimento narrativo e la predilezione per i silenzi, interrotti dalla voce del mare e del vento, commentati dal punteggio minimalista di Takemitsu Toru e da improvvisi, brevi, pieni orchestrali, Shokei no shima s’imprime nella mente in equilibrio aereo.
Solo quell’isola e l’uomo che sale sul suo pendio fino alla sommità, dove il rituale di espiazione si compirà.
Teatro scenico quanto mai reale, l’isola di Kojima si materializza come presenza fantasmatica agli occhi di Saburo fin dalla prima sequenza.
Visione d’inferno, montagna “bruna per la distanza”, circondata da un mare che respira ostile e gonfio, luogo scabro di roccia vulcanica che precipita in vertiginosi dirupi sulla corona di scogli spumeggianti, appare claustrofobico pur nella totale apertura dei suoi spazi.
Lo sguardo di Saburo imprime ai luoghi un senso di chiusura opprimente che schiaccia a terra, come i colpi sulla sua schiena di bambino sferrati dal sadico mostro che domina l’isola.
La divisa ormai logora e scomposta dell’esercito giapponese, le stampelle usate come arma e l’aspetto inselvatichito fanno di Otake una visione da incubo, quella che la memoria di Sabo porta incisa da venti anni.
Flashback silenziosi, tessere lontane che si affollano a formare la trama frammentata e dolorosa dei ricordi, intrecciano presente e passato, svelano con millimetrica progressione l’antefatto criminale.
Riemergono da indistinte lontananze i sopravvissuti: Kuroki, il vecchio maestro del riformatorio e sua moglie, l’unico essere umano che abbia aiutato il ragazzo inerme, annientato dalle bastonate di Otake.
E’ vecchia e malata, lo guarda da una distanza siderale, ma continua a chiedergli perché é tornato. Riuscirà ancora, la buona donna, a dar voce alla sua umanità implorando il marito di non lasciar andare Saburo, che non arrivi da Otake.
Ma Mr.Kuroki non sa cosa vuol dire spendersi per l’altro, non fu capace allora di opporsi alla violenza cieca del mostro, non riuscirà ora ad impedire che la spirale si chiuda con altra violenza.
La foto di Abraham Lincoln che pende sbilencaalla parete del suo studio suona beffarda, il suo é il fascismo dei conniventi, la distanza colpevole di chi non osa opporsi per vigliaccheria, per opportunismo o, peggio, per indifferenza.
Il sole che tramonta sul mare dietro l’isola tinge di rosso il cielo e di nero la montagna, dopo tanti anni sole e mare sono gli stessi, nulla é cambiato, risponde Saburo al vecchio maestro che tenta debolmente di dissuaderlo, il tempo non sana tutte le ferite.
Inizia con un’alba livida la sequenza finale del film, il rauco basso continuo della risacca é l’unico rumore, insieme ai passi di Saburo che si arrampica verso il nido dell’aquila.
Aya (Shima Iwashita), la giovane figlia di Otake, bambina quando Sabo era un povero ragazzo indifeso, già incontrata al porto e difesa dall’aggressione di giovinastri, entra ora in scena come guida del tratto finale del viaggio di Sabo.
Non riconosce il giovane, ma tra i due si avverte una corrente invisibile.
Nella capanna di legno in cui la ragazza vive sola col vecchio padre, il confronto finale tra Saburo e Otake si sviluppa in due fasi per una messa in scena di tipo teatrale che conferma la predilezione di Shinoda per questa particolare forma di ibridazione linguistica, perfezionata successivamente con Double Suicide.
Saburo ottiene la prova dell’assassinio della sua famiglia dalle impronte digitali impresse da Otake su un piccolo Buddha trafugato nella capanna. Ora può avviarsi al compimento della sua impresa.
Il cielo e il mare riempiono lo schermo, lo stesso colore livido ne annulla il confine, Saburo torna alla capanna sulla cima del monte.
Aya tenta di fermarlo, ha saputo da Kuroki chi é Saburo.
Il finale scioglie i nodi, Saburo ristabilisce l’equilibrio alterato da malvagità individuale e inconfessabili giochi di potere collettivi. Il suo ultimo gesto, sorprendente e inatteso, ha la simmetria perfetta del contrappasso e la durezza del sacrificio autoimposto.
Il sacrificio é Aya, il suo sogno fin da bambino, quando le diede un bacio sui capelli in quel campo di fiori gialli e ne fu strappato dalla mano violenta di Otake.
Il destino ora li divide per sempre, resta il vento a scompigliarle dispettoso il caschetto di capelli neri mentre guarda dall’alto Saburo che si allontana sul traghetto verso la terraferma.
La sovversiva critica sociale di Masahiro Shinoda, out sider della Nuberu bagu, il nuovo cinema giapponese del secondo dopoguerra, é qui condanna senza attenuanti del militarismo imperante nella società giapponese e delle sue devastanti conseguenze, anche nei tempi lunghi legati a storie individuali.
Come nel mito, però, si rivolge all’immaginario collettivo attivando correnti emotive che operano sugli strati profondi della psiche attuando persuasione.
Non mira alla dimostrazione, non argomenta, ma istantaneamente convince e soggioga.
Come nel mito, Saburo é lo strumento di cui la Storia si serve perché giustizia sia fatta e, come nel mito, é l’eroe che assume su di sé il peso della condanna di essere uomo.
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