Regia di Giulio Ricciarelli vedi scheda film
Francoforte, Germania dell’Ovest, 1958. Johannes Krisch (Simon Krisch) riconosce in un insegnante delle scuole elementari un suo aguzzino nel campo di concentramento nazista ad Auschwitz. Aiutato dal giornalista Thomas Gnielka (André Szymanski), cercano di mettere al corrente l’opinione pubblica del fatto increscioso. Ma la Germania di Konrad Adenauer ha introdotto la reintegrazione massiva degli ex nazisti, rendendo nullo il precedente divieto dagli incarichi pubblici previsto proprio contro i “vecchi” adepti del regime hitleriano. Così, un muro di silenzio si erge contro le giuste recriminazioni de due uomini. Ma c’è un giovane avvocato disposto ad ascoltarli, Johann Radmann (Alexander Fehling), che vuole saperne di più della reale natura del nazismo. Sentite le testimonianze di molti internati sopravvissuti all’olocausto, l’avvocato va deciso per l’unica strada da intraprendere : portare davanti ad un tribunale gli autori materiali di molti crimini nazisti rimasti impuniti. Trova un forte alleato nel procuratore generale Fritz Bauer (Gert Voss), che lo sprona a non mollare, a stanare i nazisti che si sono mimetizzati bene nella nuova Germania. A cominciare dal più importante di tutti tra quelli ancora beatamente in libertà : Josef Mengele, il dottor morte.
“Il labirinto del silenzio” del regista italo-tedesco Giulio Ricciarelli indaga su un arco temporale della storia tedesca che va dal 1958 al 1965, dal lavoro istruttorio cominciato da Johann Radmann fino all’inizio del processo istruito per perseguire i crimini nazisti rimasti impuniti. Nel mezzo, c’è l’indagine su un paese condotta attraverso la presa di coscienza del giovane avvocato il quale, da un lato, scopre delle verità orribili sull’esperienza nazista che ancora non conosceva per intero, dall’altro lato, si scontra contro un mondo intessuto di enigmatici silenzi che sembra nutrire tutto l’interesse a tener nascosto quella macchia incancellabile della storia tedesca. Johann Radmann arriva a conoscere il mostro per quello che è stato veramente, e a diventare un punto di riferimento per quelli che non aspettavano altro che iniziare a parlare della loro tragica esperienza da internati. Il film diventa così un’inesorabile smascheramento della reale natura del “male assoluto”, una scoperta che stordisce la società tedesca coeva e che prende corpo nonostante la “normalizzazione” del paese imposta dal presidente Konrad Adenauer (la canzoncina che apre il film, intonata da un gruppo di bambine delle elementari, dove si dice che la Germania è il migliore dei mondi possibili, è assai emblematica in tal senso). Una scoperta nata innanzitutto dal confronto serrato tra il silenzio forzato delle vittime e quello volontario dei carnefici.
C’è chi non sa perché non vuole sapere e chi non sa perché non può sapere. Nella “giovane democrazia” tedesca descritta dal film, le cose si pongono in una posizione mediana. Da un lato, nel 1958, soprattutto i giovani come l’avvocato Johann Radmann, potevano anche solo aver ricevuto degli echi indistinti dei crimini perpetrati dai nazisti, potevano anche credere che Auschwitz fosse solo un campo di detenzione per i prigionieri e non uno dei luoghi deputati allo sterminio della razza ebrea. Ci voleva chi gli raccontasse le cose, e quello non era ancora il tempo della palese e totale conoscenza dei crimini del nazismo. Dall’altro lato però, c’era una moltitudine di persone che preferì semplicemente voltarsi dall’altra parte, gente che, in quanto tedesca e proprio perché partecipe in maniera più o meno diretta del clima di terrore messo a punto dai vertici del potere, non avrebbero dovuto aspettare i resoconti agghiaccianti di miglia di testimonianze di sopravvissuti ai campi di sterminio per sapere di quali orribili orrori si era reso protagonista il regime hitleriano. É in questo spazio critico che si muove il film, tra la volontà di pochi di riaccendere la luce su un passato prossimo ancora troppo scomodo per essere cacciato così frettolosamente nell’oblio, e l’esigenza di molti di dimenticare il più in fretta possibile, di gettarsi tutto alle spalle, di scegliere di non sapere fino in fondo di quali atrocità si sia macchiato il governo nazista. Perché ricordare può significare cominciare a fare i conti con la propria coscienza, ritornare a riflettere sul confine che esiste tra la necessità coatta di doversi dire nazista e l’inconfessabile verità di aver abbracciato la causa per intima convinzione. L’aspetto più interessante del film sta proprio in questo mettere in risalto con precisa puntualità il clima di generalizzata omertà che aleggiava nel paese, il fatto che, nell’atmosfera di ottimismo prodotta dalla prorompente crescita economica della Germania dell’ovest, questa rimozione forzata trovava un terreno fertile perché faceva comodo proprio a tutti, ai gerarchi nazisti, che si potevano riciclare meglio nei gangli più influenti della società, e ai cittadini comuni, che ptevano così affrancarsi dal rischio di dover fare i conti coi propri fantasmi. L’inchiesta aperta da Johann Radmann fa da sfondo a quella che ritengo essere l’autentica finalità del film : mostrare la psicologia corrotta di un intero popolo il quale, all’alba degli anni sessanta, preferiva sapersi inserito in una sorta di corporazione collettiva votata ad un ostinato mutismo, piuttosto che collaborare al fine di estirpare alla radice quanto ancora di consistente esisteva dell’esperienza nazista nella società tedesca. I crimini orribili commessi da ricercati illustri come Josef Mengele e le spinte collaborazioniste serpeggianti per il paese, finiscono così per camminare sullo stesso binario, essere due facce di una stesa medaglia. Il lavoro del giovane avvocato, più va avanti nel ricercare i riciclati nazisti, e più si allarga a macchia d’olio su un intero paese, gettando un ombra di sospetto su chiunque si sia mostrato anche solo indifferente. “Tutti quelli che hanno collaborato, che non hanno detto no, sono Auschwitz”, dice Fritz Bauer (personaggio reale alla cui memoria è dedicato il film). I grandi crimini possono giustificare chi si è mostrato “solo” indifferente ? Questo, in fondo, è il dilemma morale posto dal film, e la conclusione a cui ci conduce Giulio Ricciarelli è che, almeno nel ventennio successivo la fine della seconda guerra mondiale, la tendenza più accreditata tra il popolo tedesco fu quella di mettersi al riparo da qualsiasi senso di colpa attuando un tombale silenzio sull’esperienza nazista. La storia va avanti, si sa, e spesso si ritiene che il passato può rivelarsi un ostacolo fastidioso che si frappone tra un presente laborioso ed un futuro radioso.
Mischiando personaggi e fatti reali (come Thomas Gnielka e Fritz Bauer) con altri di finzione, “Il labirinto del silenzio” si muove nel solco di tanto cinema tedesco mosso dalla necessità di gettare un occhio analitico su un passato scomodo. Un legal movie alquanto atipico che, pur ruotando tutto sull’indagine portata avanti da Johann Radmann, tende a mettere soprattutto in evidenza i moventi psicologici presenti nel paese che l’hanno prodotta. Questo lo fa essere un film sincero ed appassionato, dinamico nella forma senza mancare di essere rigoroso nello stile, rispettoso della storia senza apparire un film a tesi. Aperto alla riflessione sulla natura umana anche se chiuso nell’indagine di un mondo particolare. Un buon film, da consigliare.
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