Regia di Giulio Ricciarelli vedi scheda film
Se volessimo sintetizzare un poco il senso etico di questo interessante esordio alla regia del non più giovanissimo Giulio Ricciarelli (italiano di nascita ma tedesco d’adozione e di formazione), potremo definire il film come la storia di una troppo frettolosa “riconciliazione” costruita sulle menzogne e su troppe complici omissioni.
E’ indubbio che la Shoah ha segnato il secolo scorso più di ogni altro avvenimento lasciando un’indelebile impronta tragica e luttuosa a causa di quell’eccidio scientemente perpetrato con freddezza e determinazione verso un intero popolo, vero e proprio delitto contro il genere umano, del quale percepiamo tutto l’orrore e che pone ancora oggi molti interrogativi rimasti privi di risposte certe, a partire da quella “banalità del male” con cui si tenta di assegnare almeno una matrice a una disumanità programmatica e perversa (da stigmatizzare davvero per l’eternità a “imperitura memoria”). Eppure, nonostante siano ormai trascorsi così tanti anni, ci sono ancora molte inquietanti sacche oscure da esplorare, e questo ci induce (oggi con ancora più forza che nel passato) a rifletterci seriamente sopra (e per fortuna il cinema ci dà spesso una mano a riannodare il filo grazie alle accurate ricostruzioni dei terribili fatti di quei giorni che ciclicamente ci propone).
Il tentativo (fallace) è quello di cercare qualche (im)possibile spiegazione logica capace di esorcizzare le fosche paure che ci attanagliano, che sono poi quelle di un possibile “ritorno” che purtroppo temo sia già una realtà che lentamente prende corpo e si sta sviluppando in varie forme un po’ dappertutto senza che nessuno opponga una vera resistenza mai tanto necessaria come adesso (Brecht ci aveva ben avvertito del pericolo con quella sibillina battuta che conclude il suo “La resistibile ascesa di Arturo Ui”: E voi, imparate che occorre vedere / e non guardare in aria; occorre agire / e non parlare. Questo mostro stava, / una volta, per governare il mondo! / I popoli lo spensero, ma ora / non cantiamo vittoria troppo presto: / il grembo da cui nacque è ancora fecondo).
La fiamma insomma è ancora ben accesa, sprigiona temibili focolai sparsi in tutto il mondo sempre più pericolosi ed aggressivi ed anche più difficili da avversare se non attraverso una “memoria” davvero condivisa (forse ci è rimasta solo quella) da tener soprattutto viva adesso che i testimoni oculari di quella crudele epopea si stanno lentamente estinguendo rendendo sempre più difficile l’anamnesi documentata dei fatti, poiché ben presto dovremo purtroppo fare i conti con l’evidente impossibilità di poter attingere ancora alle testimonianze in diretta di chi ha effettivamente vissuto in prima persona quella tragedia, e c’è dunque un disperato bisogno – prima che sia troppo tardi - che il testimone passi nelle mani delle nuove generazioni affinché lo possano brandire come un’ascia continuando ad urlare a piena voce “non in mio nome!!!”
E’ indispensabile dunque un’approfondita analisi che metta il dito nella piaga di un passato (ambiguo) che ci riguarda tutti da vicino poiché un serio e costante lavoro di scavo e di ricerca articolata è l’unica cosa che può aiutarci a interpretare meglio anche il nostro presente (difficile comunque da “bonificare” poiché moralità e senso etico delle cose, sono stati definitivamente surclassati e messi in minoranza dal profitto e dalla convenienza che giustifica ogni cosa, anche i soprusi e le connivenze).
E di passato e della sua (necessaria) rielaborazione parla appunto Il labirinto del silenzio.
Il neo-regista ha utilizzato dunque il cinema – questa pellicola – come il necessario “strumento attivo” che gli ha consentito di condurre in porto la sua personale investigazione (davvero molto efficace e puntuale) per poi dar vita a un’opera intelligente e matura come questa che possiede la rara qualità di rendere eloquentemente strutturato (ed anche appassionante) un discorso abbastanza problematico sviluppato peraltro rispettando in pieno (ma con forte partecipazione emotiva) l’eloquio convincente del “diritto” che in altre mani avrebbe potuto trasformare il tutto in un pamphlet privo di mordente appesantito da una insopportabile verbosità (che per fortuna qui è invece totalmente assente).
Oggettivamente si deve comunque ammettere che all’interno della struttura dell’opera e nel suo inevitabile passare dal piano della visione a quello dell’ascolto (o per meglio dire, dalla potenza delle immagini a quella delle parole) si avvertono dei piccoli cedimenti (perdonabilissimi in un’opera prima) che rivelano un andamento non sempre perfettamente controllato nello sviluppo narrativo della storia, e questo soprattutto a causa di una prima parte che, per evidenziare il divario con la successiva che sarà poi quella della presa di coscienza del suo protagonista, appare fin troppo spensierata e “leggera”, anche se poi alla fine, grazie alla forza espositiva che trasmette il resto, il film finisce per imporsi ugualmente (e prepotentemente) all’attenzione dello spettatore, e questo non solo per le tematiche trattate, ma anche e soprattutto per l’accurata ricostruzione storica e la profondità dell’osservazione.
Ma andiamo per ordine e partiamo proprio da ciò che il film racconta e dalla sua ambientazione. Siamo dunque nella Francoforte del 1958, quella del ritrovato benessere dopo le pesanti privazioni della guerra accentuate dalla sconfitta militare, con gli americani ormai appagati dal processo di Norimberga e la denazificazione ritenuta a torto ormai definitivamente conclusa (ed anche esorcizzata). Un periodo insomma in cui la “rinata” Germania preferiva ricordare Auschwitz e gli altri luoghi di sterminio, non come i foschi teatri dei terribili misfatti che dentro vi erano stati perpetrati, ma bensì come degli “innocui” campi di lavoro, tanto per tenersi a posto le coscienze. Si viveva insomma in un clima di riappacificazione generale pieno di speranze nel futuro, tale da far accettare (o, per dirla meglio ancora, a non farci caso per non doversi poi porre troppe imbarazzanti domande) che ci fosse una specie di indotta riabilitazione generale anche nei confronti di coloro che avevano avuto un ruolo attivo nei lunghi, brutali anni della barbarie hitleriana. Una “sanatoria” generale dunque, che permise anche ai boia di tornare ad occupare posizioni particolarmente delicate, come quella formativa che compete per esempio a un insegnante delle elementari che dovrebbe invece presentare le credenziali di un passato inoppugnabile.
Al centro del film troviamo dunque un giovane e biondo procuratore alle prime armi (Johann Radmann),uomo integerrimo e ligio al dovere, deciso a fare sempre quello che è giusto. Grazie alla denuncia di un giornalista anarchico e combattivo (Thomas Gnieka) e alle affermazioni testimoniali di un pittore fortunosamente sopravvissuto allo sterminio della sua gente e a quello per lui ancor più drammatico delle sue due figlie gemelle brutalizzate dal dottor Mengele con i suoi esperimenti crudelmente mortali (Simon Schultz) che crede di aver riconosciuto nel maestro di una scuola elementare il volto di uno degli aguzzini del campo di concentramento dove era internato, l’uomo inizia a porre l’attenzione (indagatoria) su questa singolare coincidenza con l’intenzione di arrivare a definire meglio l’effettiva natura di una figura che nel presente sembra essere quella di un pacifico e inoffensivo uomo di cultura accusato però di avere compiuto in precedenza azioni esecrabili ed infamanti incomprensibilmente rimaste libere da sanzioni.
Un’inchiesta davvero molto complessa quella che intraprende questo irreprensibile procuratore che lo porterà a scontrarsi con una reticenza generalizzata che renderà abbastanza periglioso e pieno di insidie il lungo e accidentato cammino verso la verità. Radmann arriverà comunque ben presto a scoprire le ributtanti connivenze che stavano inquinando anche gli strati più alti del potere e a dover considerare in conseguenza, che persino i nuovi padri della nazione rinata sulle ceneri hitleriane, avrebbero dovuti essere ritenuti a loro volta, più mostri che eroi per questa non casuale reticenza.
Pian piano insomma, le testimonianze dei sopravvissuti restituiscono a lui (e agli spettatori) i tratti sconvolgenti di una inimmaginabile realtà scioccante quanto ignota che apre uno scenario davvero sconcertante, con fondati sospetti di complicità (o, peggio ancora, di correità) che pian piano si estenderanno a macchia d’olio contaminando molte cose, fino a lambire persino la “irreprensibile” famiglia della sua fidanzata, ma che – fatto per lui ancor più devastante - potrebbero toccare la figura stessa di suo padre disperso sul fronte occidentale alla fine della Seconda Guerra Mondiale e da lui da sempre venerato. Scoprirà altresì che quello di cui si sta occupando non è certo un caso isolato, e che sono tantissimi i carcerieri e gli ufficiali dell’esercito macchiatisi di colpe orribili alle quali eraq stato consentito da tutti, classe dirigente compresa, di ricostruirsi un’identità adamantina e di ritornare così a vivere impunemente una nuova vita rinormalizzata, come se niente di così terribile fosse accaduto in precedenza..
Confortato dall’appoggio del procuratore generale Fritz Bauer, Radmann, riuscirà però - pezzo dopo pezzo (e con pazienza davvero certosina) - a ricostruire l’intero puzzle e a portare in superficie il vergognoso passato prossimo della sua Germania tanto amata, dando di conseguenza origine al secondo processo detto di Auschwitz, indubbiamente meno clamoroso di quello di Norimberga, ma altrettanto importante e forse anche di più, poiché è proprio da lì che è germogliato il fondamentale contributo che è servito a (ri)svegliare le coscienze e a mettere le necessarie basi per accompagnare lo stato Tedesco (all’epoca ancora molto riluttante), fuori dal dedalo delle connivenze (quello dei silenzi e delle menzogne appunto ben evocato dal plurale del titolo originale poiché le bugie e le coperture omissive erano state davvero molteplici e trasversali, tanto che coniugarle al singolare come è stato fatto qui in Italia, risulta davvero molto riduttivo).
Nel film di Ricciarelli viene dunque esposto - scannerizzato dall’interno – il virus del nazismo intenzionalmente “rimosso”, fotografato nel cruciale, travagliatissimo periodo di passaggio dalla beata inconsapevolezza di chi desiderava solo dimenticare, allo sconcerto di chi dovette invece arrendersi suo malgrado, ad ammettere una differente, scomoda realtà, e di conseguenza a doversi di fatto confrontarsi con la diffusissima “vergogna comportamentale” di chi con il proprio silenzio/assenso aveva contribuito ad inquinare nel profondo l’intero tessuto sociale (e morale) di una nazione in cui - oggettivamente - erano in pochi a potersi definire davvero innocenti.
Nulla è stato semplice né facile, ma c’era davvero bisogno di questa “verità” che il film ci spiattella in faccia priva di ulteriori reticenze. Un’opera altamente etica la sua, dove i personaggi della storia sono in parte reali (lo sono il giornalista Thomas Gnielka e il procuratore Fritz Bauer, a cui il film rende omaggio) e in parte di finzione, prima fra tutti, la figura del protagonista che comunque somma nella sua persona, quella di tre procuratori effettivamente esistiti (ottimo espediente finalizzato a rendere più drammatico e avvincente il tema della ricerca e della scoperta).
Film-dossier sobrio ed efficace (ma al tempo stesso anche dramma giuridico storicamente irreprensibile), Il labirinto del silenzio rappresenta una pagina davvero rilevante di un percorso in fondo al quale in qualche modo al “male” si tenta di dare una connotazione più specifica rispetto a quella “banalità” più generalizzata (che personalmente non mi ha mai del tutto convinto). Qui infatti si prova ad assegnare un nome, un volto un’età e un indirizzo a quel “male” attraverso la rielaborazione di una “maturazione consapevole” che approderà al processo del 1963 (vero punto di non ritorno e di svolta per una Repubblica Federale Tedesca non più disposta a garantire immunità agli esecutori materiali – in varia forma – di quel genocidio), che porrà fine (almeno ufficialmente, poiché nei fatti troviamo purtroppo ancora molte resistenze) a quella fitta coltre di omertà che rese possibile l’inganno collettivo di quella oltraggiosa rimozione atta ad assolvere tutti, indipendentemente dalle loro azioni.
Ottimo infine il tratteggio che ci vien fatto della figura di un Radmann convinto di vivere nel paese migliore del mondo, e anche lui all’inizio incapace persino di immaginare cosa effettivamente erano stati quei campi di sterminio spacciati dalla propaganda per luoghi di lavoro e di detenzione preventiva, ma che poi alla fine, testimonianza dopo testimonianza – finirà per rendersi pienamente conto del peso morale di una menzogna così mostruosa divulgata ad arte.
E’ invece attraverso la figura del pittore che il film parla anche dell’isolamento dei sopravvissuti e soprattutto della loro difficoltà a raccontare (e far comprendere) a chi davvero (e in buona fede) lo ignorava, l’ampiezza e la portata dello sterminio perpetrato.
Appassionante e teso come un polar, Il labirinto del silenzio si conferma dunque come un film importante e necessario, che affida proprio alle parole (più che al linguaggio delle immagini) il compito di trasmettere il senso del messaggio che veicola attraverso un percorso narrativo che diventa veritiera testimonianza di un passato terribile ma assolutamente da non obliare. “Ricordati di ricordare” dunque sempre e comunque.
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