Regia di Jon Garaño vedi scheda film
Un mazzo di fiori. Un gregge di pecore. Una lingua che pochi parlano. Sono gli elementi di un mondo semplice ed esclusivo, che si nutre dei frutti della terra, e su questi costruisce i suoi sogni.
Fiori che vanno e che vengono, perlopiù misteriosamente. Non si sa chi li mandi, ed è questo il problema. Forse parlano di un sentimento, però immersi nel silenzio che non consente di toccare la verità con mano. Sono i segni muti dell’essere, quello che esiste nel buio, non si manifesta alla luce del giorno, ma non per questo è meno reale. Il messaggio senza parole fa la spola, tra un uomo e una donna, e non si ferma, negli anni, nemmeno quando si tratta di attraversare il confine tra il mondo dei morti e quello dei vivi. Prosegue privo di un nome, spogliato di ogni certezza, perché mittente e destinatario rimangono ignoti l’uno all’altro, alla fine perfino invisibili. La continuità è un filo plasmato nell’inconsistenza, che proprio per questo resiste alla tempesta degli eventi: è fragile come un petalo, che si sfalda e appassisce, però si rinnova istante per istante, come ad un battito nel cuore ne segue sempre un altro. E come al dolore e alla perdita sopperiscono, in un soffio, la fede e l’immaginazione. Così si può credere che tutto abbia inizio nel momento in cui tutto finisce. Che ciò che non ha potuto mai essere, sarà, invece, in eterno. Che l’amore nasca nell’incoscienza e in questa si alimenti, fino a divenire un’esperienza assoluta dell’anima, un’emozione che presiede allo scorrere del tempo, ed alla quale è affidato il senso complessivo dell’andare avanti, costi quel che costi. I personaggi di questa storia sono individui separati, incompresi, persi nell’impossibilità di condividere desideri e paure. Il dialogo fallisce in partenza, la diffidenza spegne la voglia di esprimersi, si sta insieme per abitudine, per convenzione, per esigenze di spazio. C’è solo un rapporto che, in mezzo ad un sistema viario interrotto, riesce a scavarsi un canale profondo, sotterraneo, clandestino, sottratto alle tristi regole della convivenza forzata. È un collegamento essenziale e primitivo, voluto dalla natura, e che della natura adotta il linguaggio, semplice, stupefacente, universale. Si presenta libero e selvaggio, soggetto alla caducità del Creato, ma partecipa, anche simbolicamente, al ciclo del divenire, che distrugge e ricostruisce. È un mazzo di rose, di gigli, di gerbere, che cambia forma e colore, e non desiste mai, non si arrende alla sua apparentemente inutile provvisorietà. Il film di Garano e Goenaga affida il proprio ritmo a questa uniforme, ripetitiva armonia, che rimane fondamentalmente estranea alle sofisticate evoluzioni della musica, ed è parente della fissità, di cui, tuttavia, coglie la nobile vocazione contemplativa. Le immagini sono ritratti statici delle situazioni, che rimangono ferme a sottolineare come sia sempre l’essere umano, per quanto imbelle, impacciato o inerte, a dar loro un significato, a riempire la cornice con un dipinto, vivace o scialbo, limpido o ermetico, originale o scontato. Siano noi a tracciarne i contorni, a definire i confini entro cui vogliamo che il nostro io si manifesti, in primo piano o sullo sfondo. Tocca a noi scegliere il registro stilistico, il codice rappresentativo. Siamo gli autori di una reinvenzione della nostra presenza nel mondo. Possiamo esserlo in maniera distratta e superficiale, sprecando il nostro talento di artisti, oppure in modo geniale e sensibile. In questi fotogrammi si alternano banalità e poesia, che, per una volta, partecipano unite alla stessa dubbiosa riservatezza dell’indagatore, di chi si guarda intorno ed aspetta. Un atteggiamento modesto e paziente, che non aiuta questa storia piccina a salvarsi dalla facile accusa di essere ben poca cosa. Lo sarebbe davvero, se la sua sostanza si riducesse al solito composto di razionalità e illusione. Ma qui c’è di mezzo anche una discreta, intrigante follia: quella che sottomette la mente all’assurdo miracolo del sogno, e consegna il corpo alle ingegnose dinamiche della materia.
Questo film ha rappresentato la Spagna agli Academy Awards 2016.
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