Regia di Rogério Sganzerla vedi scheda film
Uno dei manifesti del cosiddetto cinema marginal che ha proprio in Rogerio Sgarzerla il suo grande esponente, capace di raccontare con povertà di mezzi la povertà della gigantesca Rio.
Sgarzerla riprende con una mano finto documentaristica vicina al cinema amatoriale che anche il più povero abitante delle favelas potrebbe ingegnarsi di realizzare se potesse permettersi una telecamera, il film parte proprio da lì, dall’alto dei bassifondi della favela aggrappata alle pendici dei monti che circondano Rio, l’immagine è poverissima come i personaggi che gironzolano fra le baracche e in fondo all’inquadratura nella sua fasulla semplicità si nota quasi senza volerlo ciò che c’è a valle, la spiaggia, il mare, Copacabana.
La favela incombe con la sua follia dilagante sulla mitica spiaggia e Sgarzerla sprigiona le urla dei suoi abitanti fuori sincronia, il più folle è Vidimar che appollaiato sul tetto sputazza riso e urla al cielo la sua disperazione mentre Helena Ignez entra nei panni di Sonia Silk, sua sorella, garota da passeggio professionale.
Sonia Silk assume il ruolo che Juliette Berto aveva in Out 1 di Jacques Rivette, la mano di Sgarzerla sembra la stessa che tampinava alle spalle la musa rivettiana ma questa volta non ci sono i composti bistrò di Parigi a fare da cornice e nessuna setta segreta incombe, c’è invece Copacabana e Vidimar come “um pesadillo vivente” un incubo fantasmatico che la pedina con un lenzuolo in testa nel suo girovagare.
Seguiamo la nostra eroina passo per passo e la voce fuori campo ci suggerisce che la disperazione e la miseria dei poveri ammutolisce al contatto e la visione con Copacabana, la musica e l’allegria soffoca la saudade finché Copacabana ci gira intorno e giriamo in giro con Sonia Silk e la sua amica brunetta.
Le seguiamo colpevolmente nel suo appartamento per gustare un altro elemento vitale per sopire la precarietà dell’esistenza carioca: l’amore, il sesso, il contatto fisico e la bellezza selvaggia delle attrici si lascia guardare come se fossimo lì anche noi, con la tentazione di saltare in quel letto mentre il flauto samba ricomincia.
Vidimar continua a girare come un fantasma mentre seguiamo un altro personaggio vitale, un po’ mendicante e probabilmente delinquente con il suo serramanico, sicuramente portavoce di Sgarzela ci dice:
“Brazil è o pais mais rico do mundo – Mas parece que a riqueza è a mais grande causa da a pobreza”.
C’è poi il dottor Grilo, o patrao di Vidimar e Sonia, che ha assoluto potere su di loro al punto di potersi concedere sesso e amore a suo piacimento, Vidimar urla al cielo “Eu sou appasionado de o meu patrao”.
Nel precedente “O bandido da a luz vermelha” lo stile di Sgarzela era libero e fantasioso ma comunque legato alle regole del cinema classico applicate nella regia e nel montaggio, qui invece si scatena la sua mano libera, folle e senza freni in ogni angolo del film che nel suo impianto risulta assolutamente imprevedibile e sregolato, sua moglie Helena Ignez urla all’impazzata “Eu nao sou tarada” correndo in mezzo alla strada all'impazzata suscitando le reazioni spontanee degli automobilisti e la gente che la soccorre esterrefatta, Paulo Villica (che interpretava il bandito dalla luce rossa) si lascia andare ad urla isteriche mentre si concede i piaceri dei suoi protetti, in colonna sonora si alternano samba e urla improvvise, tramonti a colori e il bianco e nero delle strade, si sofferma sugli sbalzi di pazzia di Vidimar che si rotola sui rifiuti e estingue candele con la bocca e il tutto sembra essere improvvisato da chi sta davanti alla telecamera come da chi ci sta dietro.
Il risultato è estremo ma estremamente concreto, le poche battute rimangono impresse così come l’estrma malinconia nascosta sotto la pazzia dei personaggi a loro modo memorabili.
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