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The Elephant Man

Regia di David Lynch vedi scheda film

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giansnow89

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su The Elephant Man

di giansnow89
10 stelle

Pietra miliare.

L'altro giorno, mentre leggevo distrattamente il Corsera, mi è caduto l'occhio sul grido di dolore di una 42enne, una laurea con massimo dei voti in filosofia, che si duole di non trovare lavoro solo perché "brutta". L'unica imperdonabile colpa di questa donna è che all'atto della nascita è stata deturpata irreversibilmente dal forcipe del chirurgo: un marchio di infamia, uno stigma indelebile, evidentemente, nella nostra società. E poi, da avido e recidivo consumatore di Dylan Dog, ho pensato a quello che è forse il numero più bello, il più vero: Johnny Freak. La storia di un bambino nato sordomuto, un diverso, non voluto dai suoi genitori, odiato, usato solo come riserva di organi per il fratellastro, vittima di una malattia genetica. I genitori di Johnny non si sono mai soffermati a guardare a Johnny come a una persona. come a un essere umano: Johnny era un oggetto, il suo unico valore era l'utilità alla sopravvivenza del suo fratellastro, non i suoi sorrisi, la sua allegria, la sua tenerezza, che invece contageranno mortalmente l'indagatore dell'incubo Dylan. Una storia disumana. Un altro freak celebre è l'Edward mani di forbice di Tim Burton: ripugnato dalla società per quelle sue inusitate forbici alle mani, Edward viene pian piano inglobato nella comunità, non già per i suoi talenti e le sue qualità umane, ma per moda, per conformismo. Il sospetto permane, ma se tutti hanno accettato Edward, bisogna adeguarsi. Il finale è però tragico: il pregiudizio della società riaffiora inevitabilmente, ed Edward è costretto alla fuga. Il tentativo di integrazione fallisce miseramente.

 

Penso non ci sia cosa più iniqua che essere giudicati dal prossimo per il proprio aspetto fisico, una colpa che non è tale, l'unico parametro della nostra vita che non possiamo controllare. In questo mondo ti viene perdonato se sei avido, se diffami, se rubi, se sei disonesto, persino se uccidi, ma la deformità fisica no, quello è un immondo peccato che va condannato dal pregiudizio delle masse alla riprovazione e all'emarginazione perenni. Il giudizio estetico è una prerogativa esclusiva della mente umana. La bellezza, la bruttezza, l'armonia, la deformità, che cosa sono se non categorie intellettuali che si è costruito l'uomo? Di certo sono fonti inesauribili di grandezza artistica: senza il senso del bello, nulla dei costrutti dell'uomo esisterebbe così com'è. Ma il senso del bello è anche una prigione dorata per il pensiero dell'uomo, un limite invalicabile che ci impedisce di guardare oltre, con genuinità.

 

La storia dell'uomo elefante è mestamente vera, ancorché romanzata (mirabilmente, oh sì) da Lynch. John Merrick (Hurt) è l'attrazione principe delle fiere di paese: un individuo orribilmente deformato da un misterioso morbo, e svenduto al pubblico ludibrio della plebe dal suo padrone, Bytes, per un pugno di scellini, come un animale, peggio di un animale. John Merrick non è John Merrick, è l'uomo elefante: la sua essenza viene scarnificata da questo annullamento della sua identità, ancora peggio che dalla malattia che lo dilania. Lo nota per caso il dottor Frederick Treves (Hopkins), che in lui vede uno stimolante soggetto di interesse accademico, da mostrare alla comunità scientifica. Treves non prova raccapriccio, ma nemmeno attrazione: solo l'indifferenza dello scienziato. John non è altro che una voce su un manuale di anatomia per lui inizialmente. Non parla nemmeno, sembra menomato anche mentalmente. Treves lo rispedisce indietro a Bytes, ma quando si rende conto che il brutale padrone lo picchia selvaggiamente, lo riporta alla clinica e inizia a prendersene seriamente cura. Gradualmente John si sente sempre più protetto, e comincia a parlare. Ad articolare dei pensieri. A esibire delle capacità, leggere, costruire plastici, a provare dei sentimenti. Viene preso sinceramente in simpatia dalla famosissima attrice Kendal (Bancroft) che lo presenta all'alta società londinese. Tuttavia il suo status di fenomeno da baraccone non cambia: dal mostrare la propria deformità dall'alto di un palco di fronte al popolino, passa a manifestare le proprie capacità da scimmia ammaestrata ad un tavolo da tè. I lord lo osservano con ribrezzo; solo l'etichetta sociale, come successivamente in Edward Scissorhands, li obbliga a mantenere un contegno e a fingere di rispettarlo. 

 

Drammaticamente il finale condurrà John a rivivere l'umiliazione del riso e del disgusto altrui, anche se se ne saprà emendare e riscattarsi completamente. Riaffermando con un urlo disperato il suo diritto a essere considerato un essere umano. Film crudele, spietato, e contemporaneamente tenero e struggente come nessun altro. Lancinante, qualcosa che artiglia il ventre e appesantisce il cuore. Epitome incredibile sulla rigidità dei preconcetti umani, sulla difficoltà intrinseca di superarli, ma anche sulla potenza dirompente del fiume delle emozioni una volta che si è riusciti a rompere gli argini dell'apparenza. E che dire della riflessione sulla grettezza delle convenzioni sociali, quell'adeguarsi al pensiero e agli atteggiamenti comuni solo per poter dire "Io sono un tutt'uno con gli altri"? Curiosa questa perdita di identità dell'uomo comune, mentre John è incamminato sul doloroso sentiero della ricerca del proprio sè, e mentre si autoafferma quale "essere umano come gli altri, tuttavia distinto, unico".

 

Per concludere, il filtro della macchina da presa è potente: scavallata l'embrionale e fisiologica repulsione verso John, ci si dimentica in fretta del suo aspetto. Ma non ci si dimentica più di lui. 

 

 

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