Regia di David Lynch vedi scheda film
David Lynch esce dai suoi schemi per regalarci un film di valore assoluto. Un capolavoro completo, che non lascia nulla al caso. Di particolare spessore la regia ed il montaggio, unitamente alle musiche, anche se a stupire maggiormente è la fotografia, con un bianco e nero artificiale dalle tinte realistiche che è il vero surplus della pellicola. La delicatezza con cui Lynch manovra la camera ha dell’incredibile: tratteggia personaggi ed ambienti con un tocco magistrale, dipingendo con maestria assoluta una storia certamente non facile. Particolare enfasi è riservata alla morale della storia, in cui i buoni ed i cattivi inscenano una tenzone irrefrenabile intorno all’oggetto del contendere: un uomo dal fisico mostruoso ma dall’animo gentile, ibrido prodotto di una natura bizzarra. John Merrick (l’uomo elefante che un medico strappa all’abominevole imbonitore di freaks) dopo una vita di sofferenze per via del suo terribile aspetto trova finalmente le condizioni per mostrare al mondo tutta la sua affabilità morale, più forte perfino delle reiterate peripezie che continuano a perseguitarlo anche laddove sembrerebbe al sicuro dalle meschinità del mondo.
L’amaro finale è notevolissimo, ma sicuramente non è l’unica scena per cui il film si distingue; notevoli infatti risultano la scena della stazione, l’aprirsi progressivo quanto sorprendente di John ai suoi benefattori, ma soprattutto il modo con cui il regista ci presenta il protagonista: un lento, progressivo avvicinamento all’identità dell’uomo elefante, inizialmente raccontato ma mai ripreso, quasi un preparare lo spettatore all’agghiacciante visione del fenomeno da baraccone. L’attesa curiosa dello spettatore, tribolata, sofferta, si spezza quando quest’ultimo si immedesima con gli occhi timorosi della cameriera, alla quale John Emmerich si palesa d’improvviso.
Lynch ci impartisce una lezione sul senso dell’”apparire”, dimensione spesso molto lontana da quella dell’”essere”. Una lezione su come il voyeurismo e l’ostentazione dell’”immagine”, come oggi va di moda dire, siano una pericolosa deriva della reale essenza dell’essere umano. Una lezione che andrebbe inculcata alla società a noi contemporanea, quella dei pezzi di figliuoli stravaccati sui divani e dei sederi sobbalzanti sempre in primo piano, società figlia del consumismo e dei valori effimeri, in cui le capacità sembrano misurarsi coi minuti di gloria televisiva che uno ha all’attivo o col numero di suonerie possedute sul cellulare di ultima generazione.
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