Regia di Barry Levinson vedi scheda film
Parafrasando il titolo di una delle canzoni simbolo del punk inglese, portata al successo dai Clash del compianto Joe Strummer, il nuovo film di Barry Levinson non può sottrarsi dalle responsabilità artistiche conseguenti alla scelta di quella citazione. Perché ricollegandosi allo spartito musicale di Strummer e soci e ricordando la dirompente irriverenza delle loro esibizioni, facciamo fatica a ragionare su “Rock the Kasbah” senza tenere conto delle aspettative che il ricordo di quella musica aveva prodotto rispetto ai presupposti narrativi che stanno a monte della vicenda raccontata in “Rock the Kasbah”. Perché oltre al fatto di presentare l’inedita commistione tra la comicità surreale di Bill Murray e la tragedia evocata dai fantasmi di una guerra (afghana) che non è mai terminata, c’era da tenere conto del potenziale dissacratorio – e quindi della risonanza con la canzone di cui abbiamo accennato – insito nel personaggio di Richie Lanz, il manager musicale che, totalmente avulso dal contesto ambientale in cui ad un certo punto si ritrova, è chiamato suo malgrado a rappresentarne il corpo estraneo che fa saltare il banco. Come puntualmente accade quando Richie, nel tentativo di rimediare alla fuga della cantante che gli ha fatto perdere i soldi dei concerti organizzati a favore delle truppe americane, si mette in testa di sfruttare le straordinarie doti canore di Saleema, una ragazza pashtun che vive in un villaggio della provincia afghana.
Interpretato da Murray, il personaggio di Richie è per forza di cose il termometro emotivo della storia tanto negli aspetti dinamici, legati al coraggio che ad un certo punto lo spingono a imbarcarsi nell’impresa di riuscire a iscrivere la ragazza al talent show Afghan Star, versione locale del programma American Idol; sia quando la sceneggiatura, dovendo distinguere tra buoni e cattivi, assegna al protagonista il compito di incarnare i valori di una democrazia (americana) giusta e universale, attraverso una persuasività e una simpatia che, nella sfida vincente alle regole delle legge islamica, messe in discussione quando il padre della ragazza vuole negare alla figlia il diritto di esibirsi in pubblico, ribadisce la filosofia di una nazione cresciuta nella convinzione di essere il principio di tutte le cose. Murray dall’alto della sua maestria caratterizza le contraddizioni del protagonista – diviso da aspirazioni artistiche e voluttà mercantili - tratteggiando una tipologia umana amabilmente difettosa. Al contrario di Levinson che, forse condizionato dalla flemma del suo attore, forse semplicemente a corto d’ispirazione, si rende artefice di una regia troppo compassata per riuscire a trasmettere l’energia che la storia e il titolo del film gli mettono a disposizione.
(icinemaniaci.blogspot.com)
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