Regia di Barry Levinson vedi scheda film
Shareef don’t like it ...
Per quanto si possa adorare Bill Murray, Rock the Kasbah dimostra che non basta la sua presenza a rendere un film memorabile. Ma nemmeno, almeno, decente: l'ultima commedia diretta da Barry Levinson - non proprio il primo tizio che passava per caso sul set - è un collage sconclusionato, amorfo e troppo lungo di scenette e siparietti che non divertono, non fanno minimamente sorridere né - figurarsi - riflettere.
L'iconico comico americano, difatti, s'aggira spento, ombroso, accigliato, annoiato per le noiose vie della pellicola: a volte si "vendica" con performance in teoria eccentriche in realtà insensate (l'esibizione in Smoke on the Water), altre è costretto in situazioni balorde che ne mortificano il talento nonché la pazienza (la sua, la nostra) mentre cerca di dare vita e anima all'inaffidabile Richie Lanz, un passato da glorioso (dice lui) scopritore di talenti, un presente di imprese manageriali truffaldine che lo portano, nell'occasione, a Kabul.
L'assunto, si capisce, è tutto; ma da quello che poteva essere un brillante susseguirsi di sketch ad alto contenuto dememenzial-satirico si scade, immediatamente, in un blando accumulo di sciocchezzuole meramente riempitive: il regista si fa invisibile come le gag, impegnato (si fa per dire) a portare a casa la pagnotta e a rendere il più possibile digeribile l'indigesto copione.
Incomprensibile, oltretutto, l'idea di rompere sul nascere un binomio potenzialmente scoppiettante: lo stralunato Bill Murray con la stralunata Zooey Deschanel (l'unico momento che strappa il sorriso la vede protagonista di una versione non propriamente convinta della hit Bitch di Meredith Brooks). La principessina indie-hipster, nonostante sia spesa (furbescamente) tra gli attori principali, esce di scena dopo dieci minuti (per sua fortuna).
Sostituita, nel ruolo di spalla murrayiana, da una qualsiasi Kate Hudson, pia donna di facili costumi (sgargianti, mediorientali) che aiuta il male in arnese Richie Lanz nella sua "missione".
Laddove la missione, per conto e a causa di misteriosi incroci mistico-divini - tra i quali solerti militari americani, immancabili stolidi intrallazzatori/trafficanti d'armi (perlopiù malfunzionanti), complici inaspettati (il taxista col mito di Madonna & c.), duri mercenari con la faccia di Bruce Willis (si starà ancora chiedendo cosa ci facesse lì), pittoresche figure indigene, letali signori della guerra - diventa lanciare nel firmamento nazionalpopolare la giovanissima pashtun Salima (la bellissima Leem Lubany, sola presenza luminosa) in barba a trascurabili tradizioni-gabbie facilmente intuibili.
Come? Ogni mondo è paese ecc.: la versione locale di American Idol, Afghan Star viene eletto a luogo simbolo di un'emancipazione (femminile, collettiva) che flirta maldestramente con la favoletta edificante in zona teen-talent.
Canta che ti passa: ovviamente in inglese, Cat Stevens, da Wild World a Peace Train; così la didascalia finale ("dedicato a Setara Hussainzada, che ha avuto il coraggio di cantare a Afghan Star") diventa epitaffio di una mesta commedia senza ritmo, senza idee, senza spiragli. Che non sarà piaciuta allo sceriffo né a nessun altro.
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