Regia di Leone Pompucci vedi scheda film
E’ una piccola, stralunata favola (anche un tantino surreale, se vogliamo) questo graditissimo ritorno al cinema di Leone Pompucci (classe 1961) che dopo una brevissima stagione fortunata sviluppatasi agli inizi dei ’90 e un’appendice meno apprezzata (e apprezzabile) agli albori del duemila, aveva in pratica fatto perdere le sue tracce (sicuramente non per sua volontà ma a causa del mancato, necessario supporto finanziario del deficitario “sistema cinema” italiano) diventando così un vero e proprio “desaparecido” dello schermo anche poco ricordato.
Autore di sole tre commedie “corali” non particolarmente significative, ma comunque degne di attenzione come Mille bolle blu del 1992 (che si portò persino a casa un David di Donatello), Camerieri del 1995 (vincitrice del Nastro d’argento nel 1996) e Il grande botto del 2000 , è a mio avviso proprio con questa sua ultima fatica (tutt’altro che priva di difetti ma vitale), che ha dato la sua più convincente (e matura) prova, confermandosi così come un regista che nonostante tutto (e per fortuna) è riuscito a conservare intatta la sua personalissima (anche un tantino discutibile, se vogliamo) idea di cinema che lo rende praticamente unico nel panorama asfittico della nostra autarchica cinematografia.
Al di là delle storie che narra, Pompucci è dunque uno che tecnicamente sa fare molto bene il suo mestiere (e qui lo dimostra forse ancora meglio che in passato). Una padronanza del mezzo che gli consente di impaginare un racconto davvero difficile da classificare in un preciso genere ma che trasmette un’insolita energia vitale mischiata a una altrettanto massiccia dose di sconfortate solitudini rappresentate però evitando il pericoloso rischio della commiserazione. Sa insomma molto bene costruire (e dare un senso) all’inquadratura. Riesce infatti a muovere la cinepresa con intelligente competenza, il che gli permette di avere uno sguardo inusuale (e per più di una ragione “accattivante”) sorretto da una “forma” tutto sommato rigorosa (pur con qualche scivolone che sarebbe stato opportuno evitare) che gli consente – come in questo caso - di riprendere e offrire allo spettatore desolati quadri di un’italietta cialtrona e provinciale, pur esagerando un poco con la poetica delle periferie che è soprattutto retaggio di un passato che è ormai quasi archeologia, ma che non lo esentano purtroppo dal subire il fascino attrattivo di qualche dannosissima reminiscenza “suggestionale” che rimanda ad atmosfere pasoliniane difficilmente “rimasticabili” a freddo e dall’esterno, e a fellinismi di maniera (penso all’inutile, poco giustificata e giustificabile presenza dell’elefante, e soprattutto a quel finale difficilmente “condonabile” che in pratica non conclude davvero quasi nulla delle troppe trame e sottotrame (forse non tutte necessarie) disseminate lungo tutto il percorso narrativo.
Si avverte soprattutto “aria di compromesso” fra le (giuste) necessità espressive rivendicate dall’autore, e gli evidenti condizionamenti di carattere strettamente commerciale, dei finanziatori (fra i quali anche Rai Cinema, oltre alla Casa di produzione della protagonista) indubbiamente più sensibili alla cassetta che alla coerenza totale del risultato artistico (singolari pretese poi queste perché alla fine non è un film che è stato poi “protetto “ a sufficienza e fino in fondo, visto che dopo essere stato tenuto per troppo tempo al palo, è stato alla fine buttato allo sbaraglio (sono comunque pochissime le sale disseminate nella penisola dove è stata segnalata la sua presenza: la solita deficitaria distribuzione a singhiozzo priva di logica che non mostra alcuna reale idea di programmazione ragionata, se non quella di coprire alcuni momentanei “buchi”, perversa e dannosissima prassi della nostra cinematografia produttiva) a ridosso del Natale con gli spettatori prima distratti dalla frenetica corsa agli acquisti dei regali e subito dopo sommersi e frastornati dall’ingente mole di cinepanettoni (mai così nutrita come quest’anno) o fagocitati dalle più succulente attrattive spettacolari del nuovo capitolo delle Guerre Stellari (e con i cinefili equamente divisi fra l’ultimo Spielberg e l’immancabile approccio annuale con il solito, ripetitivo Allen ormai privo di sorprese che continua a mantiene intatta la sua attrattiva nonostante le troppe delusioni che costellano le sue più recenti produzioni). Troppa carne al fuoco che farà sì che saranno davvero troppo pochi quelli che si accorgeranno dell’esistenza di questo fragilissimo prodotto di nicchia che diventerà così a sua volta – ci potrei scommettere sopra - un altro “desaparecido” archiviato ben prima di essere davvero visionato dal suo destinatario finale: il pubblico delle sale.
In bilico dunque fra il realismo magico e l’indignazione per la condizione sociale dell’emarginazione e soprattutto sospeso fra la surrealità e il patetismo dell’assunto, il film (non privo di alcune indovinatissime sequenze né di figure disegnate a tutto tondo) potrebbe benissimo essere definito come l’incontro di una vita che si avvia verso il tramonto con quella di un neonato che è invece all’inizio del percorso, ma anche come una specie di commedia on the road dai toni originali e inaspettati (e qualche incongruenza narrativa), che ha il pregio di fornire a una Ida di Benedetto in smagliante forma (la vera arma vincente della pellicola) l’occasione per offrire allo spettatore una sfaccettata, magistrale prova attoriale davvero di prima grandezza che le consente di illuminare il film non solo con la bellezza consunta e tragica della sua figura, ma anche con una sfaccettata abilità interpretativa capace di mettere a nudo l’anima del personaggio (Maria Celeste) che è stata chiamata a interpretare sullo schermo, che è poi quella di una donna spigolosa e complicata, dotata però di una forte dose di umanità e determinazione, e piena di irrisolti problemi personali.
La storia (almeno quella principale) è presto detta, e prende origine in una bella giornata di sole dentro una stazione ferroviaria di Roma quasi deserta dove una signora di un’età che si aggira intorno ai sessant’anni, vestita di tutto punto (e tutt’altro che trasandata, a testimoniare la sua provenienza da una classe sociale non marginalizzata) che potrebbe sembrare in attesa di qualche treno ma che è invece presenza abituale di ogni domenica quando si rifugia lì al fine di passare indenne la giornata e che vinta dalla stanchezza, si è momentaneamente appisolata sulla panchina su cui è seduta, viene svegliata all’improvviso da una giovanissima donna che – senza profferir parola, le posa tra le braccia un bambino di pochi mesi e poi se ne scappa via a gambe levate.
Comincia così la storia di Maria Celeste, vedova di un commercialista e madre di un commercialista che però avrebbe voluto fare il chitarrista. La donna vive in un ospizio che pudicamente chiama “albergo” in cui si è trasferita perché non ne poteva più di stare sola, un luogo che però detesta talmente tanto da non aver nemmeno voglia di socializzare con le altre donne che come lei risiedono nella struttura. Così, per mantenere intatta la sua facciata perbenista (le piace dettare le regole, sentirsi importante e indispensabile), inventa storie sia per gli altri che per se stessa che la aiutano ad “evadere”i ogni fine settimana, con la scusa di dover andare a trovare suo figlio che in realtà vive al mare con la sua compagna Clara e si guarda bene dall'invitare a casa quella madre ingombrante e dispotica che Clara detesta.
Maria Celeste si ritrova dunque confusa e spaventata, con quel “fardello” umano fra le braccia. Dapprima totalmente disorientata dall’inatteso evento, prova a sua volta a lasciarlo in un’auto della Polizia rimasta momentaneamente incustodita, ma senza troppo successo, anche perché Giulietta (così si chiama la madre del bambino) riappare all’improvviso per riprendersi il pargoletto (Leone, appunto) abbandonato in un momento di debolezza e rassegnazione nei confronti di una vita che le ha sempre tolto più che dato. Apprendiamo così che Giulietta – strampalata e piena di progetti confusi e senza punti di riferimento - è una giovane prostituta straniera che porta in giro il suo infante e lo lascia qui e là per “lavorare” e procurare a entrambi i soldi per andare avanti.
Le due donne passano così la mattinata insieme, cercando di instaurare un rapporto assai difficile , fino a una svolta narrativa ancor più inattesa e drammatica che porterà Maria Celeste a ritrovarsi di nuovo sola con Leone a cui si sente sempre più legata e coinvolta in un rapporto di interscambio in cui entrambi inconsapevolmente finiscono per salvare la vita uno all’altra e viceversa. Una prova e un rapporto insomma molto complessi e dolorosi parimenti divisi fra l’amaro disincanto e il bisogno impellente di restare trincerata nelle proprie fantasie, che costituirà però la molla necessaria per far intraprendere alla donna un difficile viaggio a ritroso nel passato a metà strada fra l’epico e il fiabesco che la indurrà a cercare poi di riallacciare rapporti con persone che sembravano essere invece definitivamente uscite dalla sua vita
A sostegno del film è prima di tutto necessario sottolineare ancora la maiuscola prova della Di Benedetto capace da sola di mangiarsi – letteralmente - lo schermo dominandolo dall’inizio alla fine. Non le sono però da meno quelle degli efficacissimi comprimari che la circondano, da Carla Signoris a Domenico Diele, da Mariano Rigilllo ad Augusto Fornari.e Stefano Fresi. Qualche piccolo appunto solo per l’attrice che interpreta il ruolo di Giulietta (Catrinel Marlon) che ha soprattutto il “difetto” (se così si può chiamare) di essere troppo bella (e questo le si potrebbe agilmente perdonare), ma che è anche troppo enfatica (e di conseguenza poco credibile) nei panni di Giulietta, di fatto una specie di Cabiria aggiornata ai giorni nostri ma priva dello spessore che questa figura richiederebbe.
Da aggiungere poi la bella fotografia opera di Marco Pieroni, capace di offrire un’immagine decisamente inedita (e soprattutto poco stereotipata) di una Roma preferragostiana e ostinatamente plebea popolata da un universo umano eccentricamente stravagante ma efficace (anche se un po’ troppo “posticcio”) oltre alle avvolgenti musiche originali della colonna sonora opera di Paolo Vivaldi (indubbiamente un nome da tenere in evidenza anche per il futuro).
Le pecche più evidenti, si estrinsecano invece (in aggiunta a quanto già accennato prima) in un montaggio un po’ troppo pasticciato che rende il film ondivago che non permette all’insieme di avere una costante unità di ritmo e che porta inesorabilmente al dissolversi un po’ sconclusionato di quei rivoli secondari del racconto che avrebbero invece avuto bisogni di maggior respiro per poter vivere autonomamente.
Poeticamente accattivante il titolo.
Voto effettivo: 3 e ¼
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