Regia di Amir Naderi vedi scheda film
16° FESTA DEL CINEMA DI ROMA - RETROSPETTIVA ARTHUR PENN
Il regista ed appassionato cinefilo iraniano emigrato negli States negli anni '80, Amir Naderi, spesso al lavoro in produzioni che coinvolgono anche l'Italia, ha avuto il privilegio di intervistare nel 2004 l'allora ottantaduenne regista Arthur Penn, incontrato nel suo studio. Da quegli incontri, scanditi dalla necessità di stacco della camera, fissa e costantemente diretta sul volto amichevole e bonario del regista, i due cineasti si sono confrontati e ne è nata una fucina di notizie ed informazioni interessanti.
Attraverso un racconto di vita del gran regista americano di madre lituana, che parte dall'infanzia e prosegue lungo una carriera umana e lavorativa piena di svolte e comunque sfaccettata, ne è scaturito un percorso cinematografico e umano che ci conduce dall'America della grande crisi economica all'arruolamento e l'esperienza da soldato in Europa a combattere il nazismo, fino ad approdare, per il tramite dell'esperienza teatrale e poi televisiva, alla Hollywood di fine anni '50, da dove iniziò per il cineasta la sua grande avventura nel cinema.
Un percorso cinematografico che il regista ha sempre alternato a quello teatrale ,(iniziato questo con la trasposizione di due commedie drammatiche di William Gibson, tra cui "Anna dei miracoli (The Miracle worker), trasposto poi al cinema nel suo secondo, straordinario film, premiato agli Oscar e destinatario di successi di critica e di pubblico).
Un approccio cinematografico che nasce come conseguenza di ingaggi televisivi che, nel '57 lo fecero approdare alla prima regia, con il western Furia Selvaggia (The left handed gun), piccola produzione che racconta una storia ampiamente rivisitata inerente il giovane bandito dal cuore d'oro Billy the Kids, ucciso dallo sceriffo Pat Garrett, e forte soprattutto di un attore in ascesa e profumo di divismo come Paul Newman, conosciuto grazie alla frequentazione dei corsi all'Actors Studio di Lee Strasberg.
Un esordio che lo vide sostenitore della dobbia cinepresa, con grande sconcerto della sua troupe tradizionalista, che fece inutilmente ostruzione su questa scelta. Un esordio che non godette di particolare immediata fortuna alla sua uscita, ma che venne rivalutato in Europa, in particolare grazie all'ottima accorata recensione di André Bazin.
Quella di Penn fu una infanzia non drammatica, ma certo distante dalla famiglia, con un padre un po' freddo che ricorda quello immigrato in Usa del protagonista di Gli amici di Georgia; una madre sola che deve mantenere due figli, lui ed il fratello maggiore Irwin, che diverrà in seguito un celebre fotografo, ma che in gioventù soffrì di una malattia ai bronchi che costrinse la madre a trasferire il figlio altrove, presso conoscenti, che lo trattarono con un sentimento simile all'affetto, soprattutto le figure femminili, da cui il regista trasse spunto per delineare alcuni dei suoi più riusciti personaggi femminili. L'influenza delle donne che si occuparono di Arthur nella infanzia e adolescenza, che lo svezzarono alla vita, é la scintilla che ha permesso di rendere Penn quello che Orson Welles défini un gran regista di figure femminili. Lo stesso Wells, ci rivela Penn, si complimento' con lui definendolo "maitre", imbarazzando il regista destinatario del complimento che, al contrario, si scherni controbattendo con umiltà che fu proprio Wells uno dei suoi fondamentali maestri di mestiere.
Quando Naderi lo guida a parlarci di altri registi già grandi quando il nostro Penn stava per esordire, l'intervistato ci confessa di essersi sempre sentito più in sintonia col cinema di Hawks che Ford, che esprimeva derive di violenza e malvagità umana con uno stile ed una efficacia che Penn ha cercato sempre di raggiungere nei suoi film, ed ammirato più che nel lavoro di Ford, un po' più attento alla forma e meno viscerale.
Ma il suo regista preferito resta George Stevens, oltre che George Sydney per la capacità di fondere la commedia col dramma. Incalzato da Naderi, Penn confessa di considerare Mankiewitz più un gran sceneggiatore che un ottimo regista, in grado di girare film ottimi solo se coadiuvati da un processo di scrittura in grado di sostenere la messa in scena.
Per quanto attiene Hitchcock, Penn sorprendentemente lo definisce, con rispetto ma anche sincerità, come un "pesce freddo", ovvero lo paragona ad un ottimo meccanico, in grado di far funzionare meravigliosi sistemi a orologeria perfetti, a cui tuttavia manca il cuore e quel genuino sentimento che, in effetti, guardando i capisaldi del cinema di Penn, ci fa pensare che, senza nulla poter togliere al maestro indiscusso del brivido, la sua apparentemente spietata e secca valutazione non risulta per nulla completamente infondata. Alla considerazione sincera ma un po' maliziosa del perché Penn ha girato così pochi, seppur miliari film nella sua carriera quarantennale, ovvero meno film di quelli che ognuno dei suoi ammiratori avrebbe desiderato, l'anziano regista risponde di botto che la motivazione risiede nel fatto che gli studios per molte volte gli proposero storie che non gli interessavano, così come si rifiutavano di finanziargli progetti e sceneggiature che invece lo avevano occupato per mesi.
Poi più avanti, tornando sul discorso inerente la produzione cinematografica che ha caratterizzato la sua carriera, Penn aggiunge e precisa come ha organizzato la sua giovanile carriera, tra sei anni di permanenza in Europa da soldato e congedato, poi ben dieci anni dedicati a dirigere ben dodici pièces teatrali, e alla soglia dei quaranta, finalmente pronto ad agguantare la carriera di regista cinematografico col primo film da regista di cui sopra.
Penn, incalzato da Naderi, ci parla della rappresentazione della violenza nel suo cinema, tematica costante dal suo esordio con il western sopra menzionato, al celeberrimo Piccolo Grande Uomo passando per Gangster Story e La caccia: una tematica forte, viscerale, influenzata certamente dall'esperienza personale del regista vissuta da arruolato in guerra nel Belgio.
La conversazione prosegue incalzante e appassionante fino a citare buona parte di quella manciata di vere e proprie opere d'arte che hanno contraddistinto la solida carriera registica di Arthur Penn: film come il già citato Anna dei miracoli (1962), passando per il glamour La caccia, forte di un cast da sogno e per il quale Penn precisa che non è vero che non lo ama, ma non gli piace il finale che il produttore gli impose.
Tra i titoli cult non si può omettere Gangster Story (Bonnie and Clyde - 1967), Piccolo grande uomo (1970), forse il suo titolo più forte, noto ed amato; Missouri (The Missouri Breaks - 1976) che lo ritrova per la terza volta in territorio western, e l'introspettivo e generazionale, potentissimo Gli amici di Georgia (Four Friends - 1981). Penn ha saputo prodigarsi con valente professionalità anche in lavori su commissione, magari meno ispirati dei titoli precedenti, ma solidi e di forte impatto come Bersaglio di notte (Night moves - 1975), Target - Scuola omicidi - 1985), Omicidio allo specchio (Dead of Winter - 1987).
Ci sono poi parentesi personali in piccole ma anche memorabili e sagaci produzioni che puntano il dito contro la violenza in determinati periodi storici (il mondo hippie di fine anni '60 di Alice's Restaurant - 1969), o contro il potere deviante del mezzo televisivo (Con la morte non si scherza - Penn & Teller get killer - 1989). Un viaggio intimo costellato di capisaldi che hanno reso Arthur Penn uno dei registi di punta (assieme ad altri maestri come Bogdanovich e Altman) tra i nuovi autori che da fine '60 hanno dato smalto al cinema americano d'autore poco incline ai facili condizionamenti delle majors.
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