Regia di Peyton Reed vedi scheda film
La presenza di Paul Rudd non lascia molti dubbi sulla vera e più intima natura di Ant-Man, al di là dell’appartenenza al filone super-eroistico imperante, così come la firma di Peyton Reed alla regia. Perché Ant-Man è una commedia a tutti gli effetti. È una commedia degli equivoci, in cui tutti giocano a rivestirsi di altre identità, ed è già un qui pro quo pensarlo solo come un film di supereroi, benché l’appartenenza al Marvel Cinematic Universe sia profonda e manifesta, perché l’ironia diffusa e consapevole degli altri film diventa ora la cifra stilistica di un musical senza canzoni che Reed rende vivace e leggero, con una direzione degli attori disincantata e vivace, spesso sopra le righe. È una commedia romantica per il melò di un amore passato e rimpianto, e per la storia di una relazione in divenire, celata e disvelata. È una commedia drammatica grazie alla trama da Stangata moderna che ricicla le dinamiche dei tre Ocean’s sostituendo una fabbrica al casinò e il fine ultimo del colpo. Ma è anche una commedia sociale che guarda alla crisi economica e alle difficoltà della declinazione contemporanea della famiglia e degli affetti, perduti o deviati, oltre che ad un racconto edificante di seconde possibilità e nuovi inizi. Ant-Man, nel suo piccolo, vuole essere tutto questo, e ci riesce con disinvoltura, senza mai negare la sua natura di intrattenimento, spesso arguto.
Film dalla ideazione e realizzazione travagliata, che ha visto susseguirsi registi, sceneggiatori e protagonisti, pareva un progetto con poco costrutto e dall’ambientazione repellente. Eppure nemmeno gli insetti risultano orribili (anche se manifestamente ripuliti, per avvicinarsi più ai lavori Pixar che al film di Arnold e dell’exploitation “radioattiva” degli Anni 50), tanto che finiscono per sembrare quasi domestici (con l’adozione casalinga della formica maggiorata), e il protagonista si guadagna il posto come il più piccolo (a volte) dei Vendicatori nei film a venire, grazie anche a Falcon, Avenger di seconda fila ma diretto collegamento alla serie madre. L’identità dell’uomo-formica è quella di Scott Lang, il secondo Ant-man Marvel, la cui biografia a fumetti corrisponde in parte con quella cinematografica, in quanto scienziato costretto a diventare ladro per mantenere la famiglia. Ma il passato di Hank Pym, supereroe a tutti gli effetti dalla lunga carriera sulle pagine stampate, affiancato da Janet Van Dyne, sua moglie e partner, permane nel film, ma rimane sotto silenzio pubblico per il segreto imposto sui suoi poteri di riduzione. Lo incarna Michael Douglas, deus ex-machina della narrazione, mente “criminale” dell’azione e mentore del protagonista, come già Gordon Gekko negli Anni 80, epoca a cui risale il flash-back introduttivo come eco del suo momento di massimo splendore divistico. Ma il frammento è anche un e tie-in della versione televisiva del MCU, con la presenza di Stark senior e dell’agente Carter in quanto membri attivi dello SHIELD, organizzazione spionistica e tecnologica distrutta in The Winter Soldier per l’ingerenza cospirativa dell’Hydra, e tormentato da continui tentativi di abolizione nella serie omonima. Se anche i due spezzoni presenti nei titoli di coda rimandano all’universo Marvel (l’imminente Cap e il futuro Ant-man), i dialoghi fanno già riferimento ad un arrampicamuri di prossima introduzione e si sfruttano altri disparati elementi fumettistici, come il Calabrone, in origine altra identità temporanea di Pym (personaggio abbastanza paranoico e schizofrenico, dai molteplici alias e dai numerosi problemi psicologici, forse per effetto delle sue stesse particelle, come si insinua nel film), adesso trasformata in nemesi “insettistica” della formica.
La regia spumeggiante di Peet dinamicizza i dialoghi e si avvale di un’ottima resa della stereoscopia anche per le scene meno movimentate, sfruttando sempre la disposizione spaziale degli attori. Quello che si guadagna in tridimensionalità virtuale si perde nella definizione dei caratteri, con psicologie appiattite fino alla caricatura ma perfettamente funzionali alla vivacità dell’insieme e ad un tratto volutamente “cartoonistico” riecheggiante Roger Rabbit, in cui la memoria dei fumetti aleggia nel fuoriscena mentre impreziosisce e puntella la narrazione, che procede spedita e divertita. Se Rudd porta l’eredità di tutte le commedie romantiche e generazionali del clan Apatow, Douglas cita i passati fasti da protagonista e si ritaglia un ruolo di pigmalione, prossimo alla pensione ma dall’orgoglio impenitente; Corey Stoll non riesce a scrollarsi una tormentata ambiguità, quasi prettamente televisiva e già manifesta in House of Cards, The Strain o Homeland, e Evangeline Lilly, al di là dell’elfo combattente dell’Hobbit, rimane la protagonista, impenitente e fiera di Lost, ancora motore mobile di tutti i tormenti amorosi.
All’interno di una cornice rigidamente calcolata e perfettamente costruita, i singoli film del MCU, forti della caparra di successi già depositata, sembrano volere dar spazio ai rispettivi registi per costruire capitoli personalizzati di un affresco spettacolare univoco e consapevole, in cui la distinzione stilistica diventa un’aggiunta vagamente autoriale ad un progetto eminentemente imprenditoriale che evita la standardizzazione. Una via che, sempre la Disney, sembra aver recepito per il rilancio della saga di Star Wars assoldando JJ Abrams (e regalandogli, così, il sogno di cui Star Trek era solo il surrogato) e, in generale, importando in veste cinematografica, una continuità seriale costruita sui personaggi e sulla narrazione, ma variata negli episodi dal singolo apporto registico, che è tanto televisiva quanto, prima, fumettistica.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta