Regia di Joseph Bull, Luke Seomore vedi scheda film
Il richiamo del sangue ti riporta a casa. E con la stessa intensità te ne allontana, forse definitivamente. Adam e Aiden sono fratelli. Sono cresciuti insieme, nell’impresa agricola del padre. Erano molto uniti, quando erano bambini, molto prima che arrivasse la tempesta, prima che un’epidemia del bestiame mettesse la parola fine a quella che era sempre stata la loro vita. Ora Aiden è sposato, e la moglie Abi è in dolce attesa. Adam, invece, è un uomo solo. Ha vagabondato a lungo, per non arrivare da nessuna parte, con alle spalle un passato da cancellare, e senza un vero futuro davanti a sé. Sono tante le storie che iniziano così. Ma sono poche quelle che riescono a proseguire con la stessa irrimediabile stanchezza di chi non ce la fa più, e non sa bene dove andare. In questo film il trascinarsi a fatica lungo la scia della perdita diventa scrupolosità nel raccontare; un’attenzione viva e sensibile per le singole parole, per i pensieri che affiorano dai volti, rende visibili le lacerazioni interiori, insieme alla loro insanabilità, che è ormai divenuta una soffusa eco di tristezza, una sorta di inveterata indolenza. Adam beve e si ubriaca. Spesso cerca inutili distrazioni, perché non ha ancora trovato il modo di tornare indietro. Dentro di sé ci ha provato tante volte, ma non si è mai veramente messo in viaggio. Non ha nemmeno letto le lettere che sua madre ha continuato a scrivergli. Non vuole che il ricordo invada il suo presente: ma rimuovere quel blocco, liberando il vissuto dalla sterile prigione della memoria, potrebbe essere il primo passo verso la riconquista della sua collocazione nel mondo: il rapporto con la campagna, con la famiglia, l’amore per la terra, i dolori che hanno segnato gli errori commessi per vigliaccheria e quelli compiuti con il coraggio della ragione che prevarica le istanze del cuore. Il pellegrinaggio di Adam è un percorso a ritroso nel tempo, che lo porta ad incontrare persone non meno sofferenti di lui per un destino che avrebbe potuto essere diverso, se solo qualcuno non avesse interrotto i loro sogni. Scopre così che anche il filo spezzato può riprendere a scorrere, a tessere un discorso nuovo, che procede, pur non potendo dimenticare. In questo film è onnipresente il senso della sospensione, che è una condizione troppo statica per assomigliare a una fuga, e troppo indefinita per sembrare un’attesa. Il suo significato, privo di forma e orientamento, si spezzetta nei tanti piccoli lampi di un’emozione latente, distribuiti negli istanti che trascorrono senza un fine determinato. Adam coglie l’attimo per trovarvi, casualmente, qualcosa o qualcuno in cui specchiare il proprio smarrimento: due ragazze che sprecano le loro serate per noia, un profugo africano in preda al delirio religioso, una ex fidanzata che ha perso il lavoro. è una rassegna di situazioni insulse e fallimentari, le quali, però, servono a dare corpo all’idea di un’esistenza che, pur essendo crudelmente in balia dell’insensatezza, è comunque in grado di definirsi, di assumere un carattere, di tracciare i profili delle individualità. In Blood Cells l’enunciato è potente, affidato ad un minimalismo dai contorni netti e taglienti, riempito di colori freddi e nebbiosi, eppure densi di una cupa ed inespressa energia vitale. La via alla rinascita passa attraverso una realtà polverosa e pesante, accesa dall’algida incandescenza del rancore. Alla fine del cammino, non ci aspettano luminose rivelazioni, ma soltanto il sordo sollievo di uno sguardo che, finalmente, è riuscito ad assuefarsi all’insistente penombra.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta