Regia di Duccio Chiarini vedi scheda film
È una questione di pelle. In un punto del corpo alquanto imbarazzante. Mentre il mondo circostante preme per crescere, cambiare, evolvere, anche in maniera tumultuosa, le pulsioni di Edo sono trattenute da un piccolo brandello di carne ribelle. Tutti gli altri sono presi dalle loro ansie di rinnovamento, magari di rottura, e nessuno si accorge del suo peculiare problema, che, d’altronde, non è affatto facile confessare. Il lungometraggio di esordio di Duccio Chiarini, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia nella sezione Biennale College, è un ritratto adolescenziale agrodolce, totalmente immerso nelle tematiche giovanili e familiari più in voga, e che ruotano tutte, in vario modo, intorno al desiderio di evasione, di uscita dalla solita quotidianità che ha annoiato: il padre di Edo tradisce la moglie, la sua sorellina Olivia decide di tingersi i capelli, la sua amica Bianca sogna di andare a studiare a Parigi. Tutti cercano qualcosa di nuovo, compreso il cane Teagan, al quale bisogna trovare una compagna. Edo è il centro di un turbine di attese, di eventi che stanno per accadere, di opportunità che si preparano a sconvolgere abitudini ormai consolidate. Ma mentre l’affanno di tutti è proteso a governare la barca in quel mare scosso dalla burrasca – ormonale o sentimentale che sia – la preoccupazione del protagonista riguarda, al contrario, l’immobilità a cui è costretto da un anomalo impedimento anatomico. Quell’ostacolo inusuale riesce però ad amalgamarsi perfettamente con la classica atmosfera da fiction italiana, interpretata da gente comune, nella tipica cornice di una località balneare. Questo film si fa amare anzitutto per la tenera partecipazione con cui decide di tuffarsi nella convenzionalità televisiva di casa nostra, fatta di sitcom intinte nel colore locale, con bonarie concessioni al provincialismo nazionalpopolare. La materia viene però trattata con la massima attenzione, non lasciando che nulla cada preda della prevedibilità o si scivoli via sulla superficie levigata dello stereotipo. La sceneggiatura ha il gustoso pregio di convertire l’anima ruspante della commedia da prima serata in una sensibilità profonda e semplice, che parla il linguaggio limpido delle emozioni di cui è cosparsa l’esistenza di ognuno, dalla paura dell’ignoto alla tristezza dell’abbandono, passando attraverso tutte le più note sfumature della frustrazione. Edo, inizialmente, vorrebbe ma non può. E, per potere, dovrebbe ricorrere ad un rimedio che teme. Con lui il romanzo di formazione decide, realisticamente, di restare, fino all’ultimo, fermo ai blocchi di partenza, di fronte ad una pista sbarrata che, anche una volta aperta, si presenterà comunque cosparsa di ostacoli. Il percorso non si esaurisce in un istantaneo rito di passaggio: il processo è stentato ed incerto, come il contesto in cui si svolge. Gli altri personaggi, compresi gli adulti, non sono meno confusi di Edo, ma, a differenza di quest’ultimo, sono in gioco, possono prendere iniziative, attaccare o difendersi a seconda dei casi.
Short Skin ambienta la sua piccola rivoluzione nel solito microcosmo della porta accanto: è il racconto di una tempesta che si scatena in un bicchiere d’acqua, ma l’effetto è fresco e piacevolmente frizzante.
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