Che questo film faccia scorrere fiumi d’inchiostro è comprensibile. Clint Eastwood ci sbatte in faccia uno spaccato della guerra americana in Iraq, giustificando apertamente uno di quei conflitti che consentono al mondo occidentale di pagare la benzina più o meno un euro e mezzo invece di 10 o 20. Ideologicamente, ma più ancora culturalmente, “American sniper” è quasi insostenibile. Il protagonista è un cowboy texano di grana grossa, provetto cacciatore iniziato da papà. Si arruola come cecchino nell’interminabile “guerra al terrorismo” e diventa un eroe perché onora il suo contratto oltre ogni aspettativa. Un perfetto serial killer giustificato da una guerra, un padre di famiglia, un brav’uomo che salva tante vite americane e uccide a più non posso. Non si può sentire! Mi viene in mente il famigerato “I berretti verdi”, realizzato e interpretato da John Wayne nel 1968: un’oscenità guerrafondaia made in USA sulla guerra del Vietnam. Fermi restando i poco lodevoli presupposti, la differenza sta nel fatto che Clint Eastwood il cinema lo sa fare, lo conosce in profondità, sa calibrare il ritmo narrativo e trascinare lo spettatore a suo piacimento. Il gioco gli è venuto bene. Tanta azione nelle quattro trasferte sul fronte e un’intelligente descrizione della vita civile tra l’una e l’altra. Si gioca anche sul registro dei ricordi. Come non pensare a “Full Metal Jacket” (1987) di Stanley Kubrick nelle scene degli addestramenti militari, come non tornare all’oscarizzato “The Hurt Locker” (2010) di Kathryn Bigelow in quelle classicamente belliche? Due riferimenti che non sono di poco conto per un film sostanzialmente schierato dalla parte opposta. Anche qui, c’è grandissimo cinema ed è l’unica cosa che conta per chi ama la Settima Arte.
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