Regia di Henry Hobson vedi scheda film
Non tutti gli zombie vogliono la tua carne: a qualcuno basta il tuo amore.
Non è un film horror e non è un film sugli zombie (grazie a dio), bensì un delicato insight sui rapporti familiari in una condizione di malattia terminale. L'escamotage dello zombismo (zombitudine?) serve ad aggiungere un paio di importanti vincoli alla situazione già difficile di per sé: il condannato diventerà prima o poi pericoloso per tutti, compresi i propri cari; sarà emarginato in quanto oggettiva minaccia e perderà progressivamente ogni tutela sociale, fino a essere considerato pura e semplice spazzatura.
Questi elementi sono noti sin dall’inizio a tutti i protagonisti, perciò la pellicola si concentra nell’esaminare reazioni e rapporti all’interno del quadro, nonché la percezione di sé della vittima (Maggie) durante il fatale decorso della malattia. Come si dice, gli amici si vedono nel momento del bisogno, e possiamo osservare chi mostra diversi livelli di pietas e chi invece applica alla lettera i regolamenti o pensa (comprensibilmente) solo a sé stesso e alla propria prole (come la seconda moglie di Wade/Schwarzenegger).
Si capisce facilmente che in definitiva sia un film sulla solitudine interiore e la solidarietà, che mette alla prova i meccanismi sociali sia sotto il profilo funzionale che quello etico.
C’è una scena in particolare che personalmente ho trovato strabiliante: il picnic organizzato tra quattro amici (tra cui Maggie) di cui due sani e due malati. In essa la solidarietà, l’amicizia e il desiderio di sentirsi normali per il tempo rimasto sono espressi con grande delicatezza e splendida sintesi, tanto da farne un momento di commovente pausa nell’angoscioso svolgersi della trama.
Il finale è didascalico, scegliendo di ricompensare l’amore paterno con un gesto di estremo sacrificio da parte della figlia. D’altro canto l’alternativa “naturale” lo avrebbe reso un film solo desolante, benché più plausibile.
La tonalità della pellicola vira al grigio, con evidenza di marroncini altrettanto pallidi. Non si può dire sia un'idea inedita, ma è senz'altro appropriata. Pare che qualcuno lo incolpi di essere lento. Lo è, ma non risulta un difetto, anzi: lunghi momenti senza che accada nulla di cruciale sottolineano bene la stanchezza e lo smarrimento interiore dei personaggi. Chi era (Chopin?) che diceva che le pause fanno parte della musica? Qui è lo stesso.
Leggo che Maggie ha avuto scarsissimi riscontri di botteghino. Me ne dispiaccio e dissento totalmente: l’ho trovato un film davvero ottimo e lo consiglio vivamente.
Abigail Breslin/Maggie è l’ex Little Miss Sunshine (la bambina un po’ sovrappeso e stonata che partecipa al concorso per piccoli fenomeni, con una performance al limite della lap-dance su istigazione e tutoraggio del nonno). Poi è cresciuta e ha pensato bene, in tutte le foto, di spingere in fuori le tette. Forse per contrappasso o per superficiale accostamento con Benvenuti a Zombieland, in cui aveva una parte, le è stata proposto il ruolo di protagonista.
Schwarzenegger/Wade ha l’espressione giusta - la sua unica, peraltro - per un contadino impassibile fuori e amorevole dentro, ma va detto che il suo accento austriaco non si può sentire (ho visto il film in lingua originale).
Attorno al film c’è un’ambiguità definitoria: negli USA si chiama Maggie, in Europa Contagious.
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